Pubblico una lettura di 2666, di Roberto Bolaño, focalizzata sulla parte dei delitti.
Per
parlare di Bolaño ci vorrebbe Carmelo Bene. Dietro la sua scrivania con un
bicchiere di Ballantine in mano, la sigaretta accesa. Si rivolge alla
telecamera rassegnato, indugia due volte prima d’iniziare, le idee si esprimono
per contrazione, si scontrano in profondità e noi vediamo solo la punta degli
iceberg intuendo l’enorme materia sommersa.
Guarda
fisso in camera e riabbassa lo sguardo sulla mole tartassata di 2666. Ancora un'espressione costernata.
«Questo è abbandono, baratro, il baratro del controllo – pausa – ma studiato,
qua bisogna imparare a cadere, un buco nero ... una caduta libera e il
movimento, la mania del movimento, ma la mania non c'entra – espira volute di fumo
irritato dal bisogno di spiegare, la comunicazione è una farsa, una piaga;
fissa il suo interlocutore dietro la telecamera, interrogandolo per lunghi
secondi di silenzio, sempre più nero – sappiamo cadere? vogliamo precipitare?
facciamolo – ha una mano sulle pagine, sospira, appoggia la sigaretta – qua non
si spiega niente è anarchia programmatica, caos, si parla di noi signori, qua
non inizia niente e finisce tutto, in continuazione – poi un crescendo di
intensità mentre la voce si abbassa – è l’inizio perpetuo della fine,
sfinimento della fine, esplosione della fine, il senso scarnificato della morte
– pausa
e
contemporaneamente iperfetazione della storia, il ratto della storia dalle mani
degli storici, la storia è il proliferarsi cancerogeno di storie, è un tumore
che si riproduce all’infinito. Questa è la storia, che finisce in un deserto,
un ossario tra l’occidente e la sua fogna, lì in quel territorio di confine si
archiviano una a una tutte le storie che ingenerano all’infinito». Legge:
Il 10 dicembre alcuni dipendenti del
rancho La Perdicion informarono la polizia del ritrovamento di un scheletro nei
terreni ai margini della fattoria, all’altezza del chilometro venticinque della
strada per Casas Negras. All’inizio pensarono che si trattasse di un animale,
ma quando scoprirono il teschio si resero conto dell’errore. Secondo la
relazione del medico legale si trattava di una donna, ma le cause della morte,
visto il tempo trascorso, restavano oscure. A circa tre metri dal corpo furono
rinvenuti dei pantaloni tipo fuseaux e un paio di scarpe da tennis. 1
Si
appoggia allo schienale della sedia con la stessa espressione compresa, e lo
sguardo serrato dentro la telecamera, perpetrando la sua versione indignata,
senza battere le palpebre.
Meno
Bene si può provare con un’immagine rubata alla geologia e pensare alla
struttura di 2666 come una variante
narrativa della tettonica a placche.
Ci
sono cinque enormi blocchi narrativi che interagendo danno vita a una serie
inesauribile di fenomeni superficiali. C’è un’unica voce narrante, impersonale
e anarchica che trasmigra attraverso i punti di vista e di sentire di
un’infinità di personaggi, senza mai diventare onnisciente. C’è un nucleo
territoriale che è il Messico delle donne assassinate (la città di Santa
Teresa) e un altro epicentro narrativo nello scrittore Benno Von Arcimboldi. E
poi ci sono le tre altre tre parti che seguono: 1 le vicende dei critici
europei delle opere di Arcimboldi, 2 il professore di filosofia cileno
Amalfitano, 3 Oscar Fate, giornalista nero di un settimanale minore di New
York.
Dalle
collisioni di queste cinque placche ha origine il movimento infinito del romanzo
e l’universo di storie minori che attraversano più di millecinquecento anni di
storia e cinque continenti.
Pausa.
Una
delle prime chiavi di lettura di 2666 è
quella dell’abbandono. L’architettura impossibile di questa opera mondo – e lo
stesso vale per I detective selvaggi,
I dispiaceri del vero poliziotto, e
per tutta l’opera che Bolaño ci ha consegnato – esige un approccio aperto
all’inconciliabile e al caos. Se si pretende di controllare l’evolversi delle
storie, i nodi dell’intreccio, se ci si attende da ogni vicenda un fine e una
fine, si perde la possibilità di penetrare l’universo dello scrittore cileno.
Non
è richiesta meno attenzione, ma è altrettanto importante la capacità di
perdersi. Accettare la sfida di cadere nel vuoto, che è l’interruzione
inspiegabile di molte vicende narrate, l’incepparsi dei percorsi individuali,
l’ignoto e la mancanza di significato che circondano i personaggi di Bolaño –
al tempo stesso religiosamente dediti al caos quotidiano.
Così
accade per Ulises Lima e Arturo Belano, i due protagonisti dei detective spinti da una volontà
indomabile tra i marosi dell’esperienza, per Arcimboldi scrittore apolide e
disappartenente (altissimo va detto, magro e altissimo) in continuo movimento
attraverso l’Europa, un veterano, un disertore della seconda guerra, che
attraversa e osserva, partecipa senza giudicare, scrive inventa e pensa poco.
Ma
torniamo a Santa Teresa che è il polo di attrazione delle cinque parti del
romanzo. I critici sbarcano in Messico sulle tracce dell’ottantenne Arcimboldi,
Fate arriva in città per coprire un incontro di pugilato, Amalfitano ottiene
una cattedra all’università.
E
poi il racconto sprofonda nella parte dei
delitti, sconfinato centro semantico da cui si libera l’ultima parte del
testo, il cammino terraqueo e fuori dagli schemi di Arcimboldi – cammino che a
sua volte si perderà nel deserto del Sonora al confine tra il Messico e gli
Stati Uniti, dove lo stralunato e imprevedibile scrittore va per conoscere.
Così
risponde a chi gli chiede perché è diretto nel Sonora e l’inquadratura a cui
consegnerei il suo ritratto lo ritaglia, ottant’enne, appollaiato sullo sgabello
di un bar a Città del Messico, in jeans e maglietta, a bere tequila e ordinare
tacos alle due di notte. Il funzionario del ministero della cultura che lo
accompagna è accorso nella sua stanza d’albergo per liberarlo da una
perquisizione della polizia. Si trova davanti questo tedesco con i capelli
lunghi e grigi, seduto sulla sponda del letto. È quasi mattina, lo scrittore ha
l’aereo diretto nel Sonora alle sette, ma uscita la polizia chiede alla sua
guida di portarlo a vedere la città. 2
NESSUNO PRESTA ATTENZIONE
A QUESTI OMICIDI MA DENTRO C’E’ NASCOSTO IL SEGRETO DEL MONDO
Jérôme
Sessini, Ciudad Juarez, 2009
Nella
parte dei delitti il racconto diventa
la cronaca consequenziale della serie interminabile di assassini – scansione
temporale dei territori del Sonora.
Il 12 aprile vennero ritrovati i resti
di una donna in un terreno vicino a Casas Negras. Quelli che la trovarono si
resero conto che si trattava di una donna per via dei capelli, neri e lunghi
fino alla vita. Il cadavere era in avanzato stato di decomposizione. Dopo
l’esame del medico legale fu stabilito che la vittima aveva fra i ventotto e i
trentatré anni, che era alta un metro e sessantasette, e che la morte era
ascrivibile a due traumi contusivi molto forti nella regione temporo-parietale.
Non aveva documenti. Indossava pantaloni neri, una camicetta verde e scarpe da
tennis. In una delle tasche dei pantaloni vennero rinvenute le chiavi di
un’automobile. Il suo profilo non rientrava fra quelli delle donne scomparse a
Santa Teresa. Probabilmente era morta da un paio di mesi. Il caso fu
archiviato. 3
Meno
di novecento caratteri per denunciare la ferocia anonima e quotidiana in cui è
caduta una città, di cui è complice una nazione e indifferente il mondo.
Un
caso che li racchiude tutti. È il rutto zanzottiano che riverbera dietro ogni
indistinta descrizione di ogni donna trovata morta.
Non
c’è requiem per il cadavere trovato, né la dignità della memoria, è una morta
cancellata dalla comunità dei vivi: quasi non si riesce a stabilirne il sesso,
a grandi linee l’età, non si risale al momento della sua morte. Sappiamo per
certo l’altezza, gli abiti che indossa e le contusioni che l’hanno uccisa. Il
caso è archiviato.
‘Referti’
simili si ammassano e succedono come sentenze nominali per trecento pagine. Testimoniano
l’entità della violenza tracimata nell’ordinarietà, trasversale ai segmenti
della società civile, senza volto, numerica e impunita.
A
volte il racconto è più dettagliato, passa per i resoconti prosciugati dei
familiari, dei conoscenti e dei vicini di casa. Nel complesso è un insieme
puntiforme in cui si fatica a distinguere un caso dall’altro: l’accumulazione
ha effetto straniante sul lettore, conteso tra la pietà e l’immagazzinamento di
una serie di dati.
È
questo (forse) il senso della parte dei
delitti. Da una lato il dovere etico di dare spazio a ogni vittima,
dall’altro la precisa intenzione di farlo in modo impersonale, usando il
linguaggio di questo tipo di violenza. Un linguaggio che si traduce in
un’accumulazione infinita di massacri irrelati e ridondanti.
Non
è in fondo il modo in cui tutti registriamo e liquidiamo questi fatti? Lo
stesso effetto a cui è sottoposta una città e una nazione (per estens.
chiaramente a cui è sottoposto chiunque ogni giorno. basta fare un parallelo
con quello che succede in Siria che è successo in Libia, in Afghanistan, in
Iraq eccetera).
Leggere
quell’accumulazione indistinta e sproporzionata è un atto civico. È partecipare
a una manifestazione, non politica ma conoscitiva, che attraversa tutti i
continenti in cui il libro è stato pubblicato.
I
ginecidi di Santa Teresa poi non hanno colpevoli. I casi rimangono irrisolti e
quando si individua il responsabile l’effetto è lo stesso. Perché l’evidenza espone
oscenamente i segni di una malattia che non fa più effetto, perché le deposizioni
disinvolte dei fidanzati e degli amanti che ammazzano le loro donne per
gelosia, frustrazione o disperazione – in ultimo tutti per viltà, per la forma
più abietta e vergognosa di viltà – le loro deposizioni tradiscono il senso
degli omicidi: da un delitto all’altro il male si è propagato come una forma
cancerogena sull’organismo sociale.
Se
il nucleo originario dell’infezione è la miseria emarginata delle maquiladoras – catene di montaggio
off-shore delle multinazionali oltreconfine – è tutta la classe media che
attraversa Santa Teresa a essere esposta. Il massacro si compie fuori come
dentro casa, l’omicida è la banda metropolitana d’adolescenti, sono i ranghi
bassi dei cartelli di narcotrafficanti, i fidanzati e i mariti e i fratelli e i
camionisti e i magnaccia e gli studenti. Le donne sono vittime di abusi
sessuali, banali delitti di gelosia, perversioni, sevizie, maltrattamenti e
capricci ferali che hanno acquisito il diritto di esistere. Nessun delitto è
estraneo al massacro del Sonora. E tutti hanno lo stesso colpevole senza volto.
È
inutile quindi sperare nell’individuazione di un colpevole, Klaus Haas ha senso
solo come moloch mitico che simbolicamente li comprende tutti.
Non
si può sapere, perché i delitti affondano nello stesso magma indistinto, sotto
non c’è una congiura, ma un grigio impenetrabile che impedisce di vedere e
cercare.
E
dare corpo – un corpo finito anche se indistinto – a questo cancro, serve a
conoscere e far conoscere, capire che quello che succede è una sublimazione del
male impersonale prodotto dall’uomo.
NOTE
1 Bolaño R., 2666, Adelphi, Milano 2011, pag. 163
2 Bolaño R., 2666, Adelphi, Milano 2011, pagg. 121-123
3 Bolaño R., 2666, Adelphi, Milano 2011, pag. 612