giovedì 15 novembre 2012

BREAKING BAD? 1

Breaking bad, appunti in due parti

I FATTI
Walter White compie cinquant’anni. Festeggia in casa, con il figlio e la moglie. Piccoli rituali domestici. Lo vediamo a tavola e a letto. E ci si chiede come può Skyler (la giunone del professor W.) essere incinta.
Seguono le sequenze a scuola e all’autolavaggio, ovunque ha la considerazione di una mosca. Sfottuto in classe, impotente a casa, vessato sul secondo lavoro.
Ma casa White è ancora libera da ipoteche, la piscina sul retro è pulita e piena. Walter junior è all’ultimo anno di college.
Il cielo è sempre terso vicino al deserto.
A parte quando ti diagnosticano un cancro e un buonuscita di sei mesi.

domenica 11 novembre 2012

JAZZ DEL SONORA


Pubblico una lettura di 2666, di Roberto Bolaño, focalizzata sulla parte dei delitti.



















Per parlare di Bolaño ci vorrebbe Carmelo Bene. Dietro la sua scrivania con un bicchiere di Ballantine in mano, la sigaretta accesa. Si rivolge alla telecamera rassegnato, indugia due volte prima d’iniziare, le idee si esprimono per contrazione, si scontrano in profondità e noi vediamo solo la punta degli iceberg intuendo l’enorme materia sommersa.
Guarda fisso in camera e riabbassa lo sguardo sulla mole tartassata di 2666. Ancora un'espressione costernata. «Questo è abbandono, baratro, il baratro del controllo – pausa – ma studiato, qua bisogna imparare a cadere, un buco nero ... una caduta libera e il movimento, la mania del movimento, ma la mania non c'entra – espira volute di fumo irritato dal bisogno di spiegare, la comunicazione è una farsa, una piaga; fissa il suo interlocutore dietro la telecamera, interrogandolo per lunghi secondi di silenzio, sempre più nero – sappiamo cadere? vogliamo precipitare? facciamolo – ha una mano sulle pagine, sospira, appoggia la sigaretta – qua non si spiega niente è anarchia programmatica, caos, si parla di noi signori, qua non inizia niente e finisce tutto, in continuazione – poi un crescendo di intensità mentre la voce si abbassa – è l’inizio perpetuo della fine, sfinimento della fine, esplosione della fine, il senso scarnificato della morte – pausa
e contemporaneamente iperfetazione della storia, il ratto della storia dalle mani degli storici, la storia è il proliferarsi cancerogeno di storie, è un tumore che si riproduce all’infinito. Questa è la storia, che finisce in un deserto, un ossario tra l’occidente e la sua fogna, lì in quel territorio di confine si archiviano una a una tutte le storie che ingenerano all’infinito». Legge:

Il 10 dicembre alcuni dipendenti del rancho La Perdicion informarono la polizia del ritrovamento di un scheletro nei terreni ai margini della fattoria, all’altezza del chilometro venticinque della strada per Casas Negras. All’inizio pensarono che si trattasse di un animale, ma quando scoprirono il teschio si resero conto dell’errore. Secondo la relazione del medico legale si trattava di una donna, ma le cause della morte, visto il tempo trascorso, restavano oscure. A circa tre metri dal corpo furono rinvenuti dei pantaloni tipo fuseaux e un paio di scarpe da tennis. 1

Si appoggia allo schienale della sedia con la stessa espressione compresa, e lo sguardo serrato dentro la telecamera, perpetrando la sua versione indignata, senza battere le palpebre.

Meno Bene si può provare con un’immagine rubata alla geologia e pensare alla struttura di 2666 come una variante narrativa della tettonica a placche.
Ci sono cinque enormi blocchi narrativi che interagendo danno vita a una serie inesauribile di fenomeni superficiali. C’è un’unica voce narrante, impersonale e anarchica che trasmigra attraverso i punti di vista e di sentire di un’infinità di personaggi, senza mai diventare onnisciente. C’è un nucleo territoriale che è il Messico delle donne assassinate (la città di Santa Teresa) e un altro epicentro narrativo nello scrittore Benno Von Arcimboldi. E poi ci sono le tre altre tre parti che seguono: 1 le vicende dei critici europei delle opere di Arcimboldi, 2 il professore di filosofia cileno Amalfitano, 3 Oscar Fate, giornalista nero di un settimanale minore di New York.
Dalle collisioni di queste cinque placche ha origine il movimento infinito del romanzo e l’universo di storie minori che attraversano più di millecinquecento anni di storia e cinque continenti.

Pausa.

Una delle prime chiavi di lettura di 2666 è quella dell’abbandono. L’architettura impossibile di questa opera mondo – e lo stesso vale per I detective selvaggi, I dispiaceri del vero poliziotto, e per tutta l’opera che Bolaño ci ha consegnato – esige un approccio aperto all’inconciliabile e al caos. Se si pretende di controllare l’evolversi delle storie, i nodi dell’intreccio, se ci si attende da ogni vicenda un fine e una fine, si perde la possibilità di penetrare l’universo dello scrittore cileno.
Non è richiesta meno attenzione, ma è altrettanto importante la capacità di perdersi. Accettare la sfida di cadere nel vuoto, che è l’interruzione inspiegabile di molte vicende narrate, l’incepparsi dei percorsi individuali, l’ignoto e la mancanza di significato che circondano i personaggi di Bolaño – al tempo stesso religiosamente dediti al caos quotidiano. 
Così accade per Ulises Lima e Arturo Belano, i due protagonisti dei detective spinti da una volontà indomabile tra i marosi dell’esperienza, per Arcimboldi scrittore apolide e disappartenente (altissimo va detto, magro e altissimo) in continuo movimento attraverso l’Europa, un veterano, un disertore della seconda guerra, che attraversa e osserva, partecipa senza giudicare, scrive inventa e pensa poco.

Ma torniamo a Santa Teresa che è il polo di attrazione delle cinque parti del romanzo. I critici sbarcano in Messico sulle tracce dell’ottantenne Arcimboldi, Fate arriva in città per coprire un incontro di pugilato, Amalfitano ottiene una cattedra all’università.
E poi il racconto sprofonda nella parte dei delitti, sconfinato centro semantico da cui si libera l’ultima parte del testo, il cammino terraqueo e fuori dagli schemi di Arcimboldi – cammino che a sua volte si perderà nel deserto del Sonora al confine tra il Messico e gli Stati Uniti, dove lo stralunato e imprevedibile scrittore va per conoscere.
Così risponde a chi gli chiede perché è diretto nel Sonora e l’inquadratura a cui consegnerei il suo ritratto lo ritaglia, ottant’enne, appollaiato sullo sgabello di un bar a Città del Messico, in jeans e maglietta, a bere tequila e ordinare tacos alle due di notte. Il funzionario del ministero della cultura che lo accompagna è accorso nella sua stanza d’albergo per liberarlo da una perquisizione della polizia. Si trova davanti questo tedesco con i capelli lunghi e grigi, seduto sulla sponda del letto. È quasi mattina, lo scrittore ha l’aereo diretto nel Sonora alle sette, ma uscita la polizia chiede alla sua guida di portarlo a vedere la città. 2

NESSUNO PRESTA ATTENZIONE A QUESTI OMICIDI MA DENTRO C’E’ NASCOSTO IL SEGRETO DEL MONDO  












Jérôme Sessini, Ciudad Juarez, 2009



Nella parte dei delitti il racconto diventa la cronaca consequenziale della serie interminabile di assassini – scansione temporale dei territori del Sonora.

Il 12 aprile vennero ritrovati i resti di una donna in un terreno vicino a Casas Negras. Quelli che la trovarono si resero conto che si trattava di una donna per via dei capelli, neri e lunghi fino alla vita. Il cadavere era in avanzato stato di decomposizione. Dopo l’esame del medico legale fu stabilito che la vittima aveva fra i ventotto e i trentatré anni, che era alta un metro e sessantasette, e che la morte era ascrivibile a due traumi contusivi molto forti nella regione temporo-parietale. Non aveva documenti. Indossava pantaloni neri, una camicetta verde e scarpe da tennis. In una delle tasche dei pantaloni vennero rinvenute le chiavi di un’automobile. Il suo profilo non rientrava fra quelli delle donne scomparse a Santa Teresa. Probabilmente era morta da un paio di mesi. Il caso fu archiviato. 3

Meno di novecento caratteri per denunciare la ferocia anonima e quotidiana in cui è caduta una città, di cui è complice una nazione e indifferente il mondo.
Un caso che li racchiude tutti. È il rutto zanzottiano che riverbera dietro ogni indistinta descrizione di ogni donna trovata morta.
Non c’è requiem per il cadavere trovato, né la dignità della memoria, è una morta cancellata dalla comunità dei vivi: quasi non si riesce a stabilirne il sesso, a grandi linee l’età, non si risale al momento della sua morte. Sappiamo per certo l’altezza, gli abiti che indossa e le contusioni che l’hanno uccisa. Il caso è archiviato.

‘Referti’ simili si ammassano e succedono come sentenze nominali per trecento pagine. Testimoniano l’entità della violenza tracimata nell’ordinarietà, trasversale ai segmenti della società civile, senza volto, numerica e impunita.
A volte il racconto è più dettagliato, passa per i resoconti prosciugati dei familiari, dei conoscenti e dei vicini di casa. Nel complesso è un insieme puntiforme in cui si fatica a distinguere un caso dall’altro: l’accumulazione ha effetto straniante sul lettore, conteso tra la pietà e l’immagazzinamento di una serie di dati.
È questo (forse) il senso della parte dei delitti. Da una lato il dovere etico di dare spazio a ogni vittima, dall’altro la precisa intenzione di farlo in modo impersonale, usando il linguaggio di questo tipo di violenza. Un linguaggio che si traduce in un’accumulazione infinita di massacri irrelati e ridondanti.

Non è in fondo il modo in cui tutti registriamo e liquidiamo questi fatti? Lo stesso effetto a cui è sottoposta una città e una nazione (per estens. chiaramente a cui è sottoposto chiunque ogni giorno. basta fare un parallelo con quello che succede in Siria che è successo in Libia, in Afghanistan, in Iraq eccetera).
Leggere quell’accumulazione indistinta e sproporzionata è un atto civico. È partecipare a una manifestazione, non politica ma conoscitiva, che attraversa tutti i continenti in cui il libro è stato pubblicato.

I ginecidi di Santa Teresa poi non hanno colpevoli. I casi rimangono irrisolti e quando si individua il responsabile l’effetto è lo stesso. Perché l’evidenza espone oscenamente i segni di una malattia che non fa più effetto, perché le deposizioni disinvolte dei fidanzati e degli amanti che ammazzano le loro donne per gelosia, frustrazione o disperazione – in ultimo tutti per viltà, per la forma più abietta e vergognosa di viltà – le loro deposizioni tradiscono il senso degli omicidi: da un delitto all’altro il male si è propagato come una forma cancerogena sull’organismo sociale.
Se il nucleo originario dell’infezione è la miseria emarginata delle maquiladoras – catene di montaggio off-shore delle multinazionali oltreconfine – è tutta la classe media che attraversa Santa Teresa a essere esposta. Il massacro si compie fuori come dentro casa, l’omicida è la banda metropolitana d’adolescenti, sono i ranghi bassi dei cartelli di narcotrafficanti, i fidanzati e i mariti e i fratelli e i camionisti e i magnaccia e gli studenti. Le donne sono vittime di abusi sessuali, banali delitti di gelosia, perversioni, sevizie, maltrattamenti e capricci ferali che hanno acquisito il diritto di esistere. Nessun delitto è estraneo al massacro del Sonora. E tutti hanno lo stesso colpevole senza volto.

È inutile quindi sperare nell’individuazione di un colpevole, Klaus Haas ha senso solo come moloch mitico che simbolicamente li comprende tutti.
Non si può sapere, perché i delitti affondano nello stesso magma indistinto, sotto non c’è una congiura, ma un grigio impenetrabile che impedisce di vedere e cercare.
E dare corpo – un corpo finito anche se indistinto – a questo cancro, serve a conoscere e far conoscere, capire che quello che succede è una sublimazione del male impersonale prodotto dall’uomo.




NOTE

1     Bolaño R., 2666, Adelphi, Milano 2011, pag. 163
2     Bolaño R., 2666, Adelphi, Milano 2011, pagg. 121-123
3     Bolaño R., 2666, Adelphi, Milano 2011, pag. 612