Appunti incompleti
e disordinati.
La prima volta che ho avuto tra le mani un libro di
Bolaño mi ha portato via la potenza dell’abbandono. Si finisce inghiottiti in
un vortice che sembra impreciso e pretende di essere seguito nelle sue
sbavature. La forza dei due romanzi-mondo dell’autore cileno – i detective e 2666 – è in buona parte lì. Sono così tanti i personaggi, le storie
e le circostanze che si intersecano, da richiedere un’imprecisione
programmatica. È il prezzo di un’impresa che non vuole estromettere alcuni
caratteri tipici dell’esperienza: il disordine, l’imprevedibilità, l’ignoto e
la follia.
I
All’inizio dei detective selvaggi siamo catapultati
nel mare di città del Messico, piantoniamo un bar dopo l’altro, naufraghiamo
per i suoi quartieri, Bucareli, Reforma e Coyoacan, attraverso il racconto
diaristico del diciassettenne Garcia Madero. Seguiamo la sua iniziazione mentre
diserta l’università, incontra amici, mentori e amanti.
La schiera di pseudo poeti che gravitano intorno al
realvisceralismo gli apre le porte di casa e lo precipita nel pellegrinaggio
metropolitano a tempo pieno. Passa intere giornate a leggere all’Encrucijada
Veracruzana, annota tutto, dorme dove capita, senza sapere cosa gli succederà
durante il giorno, con che soldi mangerà. Rincorre rapito i due fondatori del
movimento.