domenica 10 febbraio 2013

LOS DETECTIVES SALVAJES

Appunti incompleti e disordinati. 




La prima volta che ho avuto tra le mani un libro di Bolaño mi ha portato via la potenza dell’abbandono. Si finisce inghiottiti in un vortice che sembra impreciso e pretende di essere seguito nelle sue sbavature. La forza dei due romanzi-mondo dell’autore cileno – i detective e 2666 – è in buona parte lì. Sono così tanti i personaggi, le storie e le circostanze che si intersecano, da richiedere un’imprecisione programmatica. È il prezzo di un’impresa che non vuole estromettere alcuni caratteri tipici dell’esperienza: il disordine, l’imprevedibilità, l’ignoto e la follia.

I
All’inizio dei detective selvaggi siamo catapultati nel mare di città del Messico, piantoniamo un bar dopo l’altro, naufraghiamo per i suoi quartieri, Bucareli, Reforma e Coyoacan, attraverso il racconto diaristico del diciassettenne Garcia Madero. Seguiamo la sua iniziazione mentre diserta l’università, incontra amici, mentori e amanti.
La schiera di pseudo poeti che gravitano intorno al realvisceralismo gli apre le porte di casa e lo precipita nel pellegrinaggio metropolitano a tempo pieno. Passa intere giornate a leggere all’Encrucijada Veracruzana, annota tutto, dorme dove capita, senza sapere cosa gli succederà durante il giorno, con che soldi mangerà. Rincorre rapito i due fondatori del movimento.
Arriva fino a Condesa e varcato il cancello accede all’epicentro folle e imperscrutabile di casa Font. Qui finisce con la festa del 31 dicembre la prima parte del romanzo e con la fuga in macchina da Città del Messico si chiude il capitolo incompiuto della sua antiformazione, inceppata nel caos della grande città.

II











Arturo disse che se ne stavano andando. Di nuovo a Sonora? Domandai. Arturo rise. La sua risata fu come uno sputo. Come se si sputasse sui pantaloni. No, disse, molto più lontano. Ulises parte questa settimana per Parigi. Che meraviglia, dissi, potrà conoscere Michel Bulteau. E vedere il fiume più prestigioso del mondo, disse Ulises. Che meraviglia, dissi io. In effetti, non è così male, disse Ulises. E tu, dissi ad Arturo. Io parto tra un po’, me ne vado in Spagna. E quando pensate di tornare? dissi io. Loro si strinsero nelle spalle. Chi lo sa, Maria, dissero. Non li avevo mai visti così belli. So che è ridicolo dirlo, ma non mi erano mai parsi così belli, così seducenti. Anche se non facevano niente per sedurre. Anzi; erano sporchi, chi sa da quanto non si facevano una doccia, da quanto non dormivano, avevano le occhiaie e avrebbero avuto bisogno di una rasatura (Ulises no perché è glabro), ma io li avrei baciati tutti e due, e non so perché non lo feci, sarei andata a letto con tutti e due, a scopare fino a perdere i sensi, e poi a guardarli dormire e poi di nuovo a scopare, ci pensai davvero, se cercassimo un albergo, se ci chiudessimo in una stanza buia, senza limiti di tempo, se io li spoglio e loro spogliano me, tutto si sistemerà, la pazzia di mio padre, l’automobile perduta, la tristezza e l’energia che provavo e che di momento in momento sembravano asfissiarmi. Ma non dissi niente. 1

La parte centrale del romanzo è imperniata su Ulises Lima e Arturo Belano.
Attorno ai due fondatori del realvisceralismo orbitano tutti gli accaniti lettori, scrittori, spiantati, affamati, tutti gli esuli di Città del Messico, la comica avanguardia che si oppone all’ordine costituito della letteratura sudamericana.
Formalmente I detective è costruito come una galassia, ogni pianeta una voce narrante che racconta brani della propria storia seguendo il movimento dei due allampanati poeti spacciatori.
È il 1975 quando li conosciamo, poco più che ventenni, esuli in Messico. Sono i padri carismatici della rivoluzione letteraria che diventa una religione, il senso dell’impegno apolitico per il loro paese. Vivono di espedienti e spaccio, sono instancabili catalizzatori di storie, prima in mezzo ai 14 milioni di abitanti del distretto federale poi attraverso il mondo. La loro attrazione ha a che fare con la fede cieca in un progetto impossibile: la fondazione del realismo viscerale e la ricerca della sua ispiratrice, Cesárea Tinajero.
E se incarnano il filo conduttore del racconto, se in fondo attraverso le mille voci che sdipanano (aggrovigliandolo) il romanzo noi lettori finiamo sempre per cercarli, è anche vero che la portata del romanzo li oltrepassa.

Pausa

La Città del Messico di cui all’inizio ci racconta Juan Garcia Madero qui diventa il magma inarrestabile delle voci minori che la popolano senza capirla, che l’attraversano senza posa. Il racconto si frantuma nei punti di vista di una serie infinita di comprimari, nei loro racconti che si intrecciano spingendo avanti il tempo, creando il prodigio di una percezione caleidoscopica della realtà – coerente perché sempre dislocata, solidamente compromessa e cementata sulla pluralità delle concezioni.
Belano e Lima tradiscono nei loro modi di agire la stessa poetica dell’autore: una volontà indomabile e capace al tempo stesso di abbandonarsi alle circostanze folli dell’esperienza. Il lettore segue il movimento che li spinge lontano da casa, oltreoceano a Barcelona, Madrid, in Francia, in Austria, in Italia, dietro ai due che si perdono, in un mondo in cui è ancora possibile non ritrovarsi, più materica la lontananza, dove il contatto passa per conoscenze e numeri fissi, corrispondenza cartacea, voci e piste di voci.

Ulises e Arturo si muovono come noi occidentali non riusciamo a fare. Liberi da programmi, vivono di espedienti, si fanno ospitare si innamorano e ripartono.
C’è questo più di tutto nei detective selvaggi, il loro sfrenato movimento, l’indagine sul mondo con generosità, coraggio, determinazione. Senza mai risparmiare se stessi. Una ricerca furiosa, un movimento di apertura, ascolto, continua lettura, fede assoluta, profonda capacità di solitudine e attaccamento, amore e abbandono.


VOCI

Di loro ci parlano i personaggi marginali che incontrano e testimoniano la loro presenza prima di dissolversi, perché il racconto è fatto anche di sparizioni e aritmie narrative. Voci che ritornano e altre che dopo aver intromesso fatti e carne e sangue si contraggono nel silenzio onnivoro della Storia. (Le sue parole sono le parole della tribù che non cessano di indagare, di investigare, di riferire tutte le storie. Malgrado quelle parole siano assediate dal silenzio, istante dopo istante erose dal silenzio, nevvero? 2)
Non sono rivolte a nessuno queste voci, o forse hanno interlocutori precisi ma ignoti.
Formano una rete di storie unite per dare senso a una generazione, un racconto collettivo per accumulazione, in cui ogni elemento è marginale e necessario. (In grande misura tutto quello che ho scritto è una lettera d'amore o una lettera d'addio alla mia generazione 3).

Arriviamo sul finire del romanzo fino a Tel Aviv e poi a Luanda, Huambo, in Ruanda e Zaire, prima di tornare nell’antispazio del deserto del Sonora un anno dopo la fuga da casa Font. Un anno che contrae un racconto lungo un ventennio (1976-1996), lontanissimo da pretese di unitarietà e orientato alla ricerca impossibile di senso: nelle origini del movimento realvisceralista, nella fondazione di una propria mitologia, nell’esperienza del mondo, nella (con)fusione tra letteratura e vita.


QUALCHE RIFLESSIONE CHE VADA OLTRE IL RAMMARICO DI NON ESSERE STATI SVEZZATI A CITTA’ DEL MESSICO DA ULISES LIMA E ARTURO BELANO E LA CONDANNA-A-MORTE-IN-VITA DELL’IMPOSSIBILITA’ DI FARE A RITROSO IL LORO VIAGGIO SENZA META ABBANDONATI AI FLUTTI DEL MONDO A VENT’ANNI

La Città del Messico dei detective vede la luce nel 1998, un anno dopo l’incisione eterna che di New York ci consegna Underworld. Lo stile che divide i due mondi narrativi descrive anche la distanza tra due sistemi culturali e la complessità ricchissima e calcolata di Delillo mentre accoglie l’ignoto, dà meno spazio al caos. L’esplosione rizomatica degli universi di Bolaño invece ammette al suo interno un insieme di esperienze irriducibile e aperto.
Il romanzo precede la diffusione su larga scala di internet e dell’interconnessione istantanea delle nuove tecnologie. L’universo polifonico dei narratori anticipa però il networking sociale mediante la trama infinita di storie. Il senso di comunità virtuale nasce dalla combinazione incalcolabile di rapporti e racconti tra i partecipanti e i satelliti del movimento realvisceralista – e i satelliti dei satelliti – dei satelliti dei satelliti.
È un universo aperto quello di Bolaño perché le storie non solo si intersecano e originano nuove storie all’interno di ogni romanzo, ma si ricollegano e espandono oltre il singolo testo con gli altri romanzi dell’autore cileno. Gli stessi personaggi li troviamo in altri testi che sono esplosioni dei primi, continuazioni o dimensione parallele. 



BISOGNA AMMETTERE CHE LA POESIA E’ ANARCHICA, NELLA MISURA IN CUI LA SUA APPARIZIONE DERIVA DA UN DISORDINE CHE CI RIAVVICINA AL CAOS 4

Dietro alla ricchezza del cosmo bolaniano c’è un’attenzione rigorosissima alla struttura. L’apertura di ogni romanzo, quella sorta di abbandono narrativo al suo interno sono possibili solo grazie a una diversa forma di controllo. È la progettazione macroscopica della struttura che permette di sostenere tutti i caratteri indefiniti descritti. Lo stesso Bolaño non ne faceva segreto:
“Molto più importante è che la narrazione sia sostenuta da una struttura letteraria che sia valida, da una scrittura che almeno sia leggibile e dalla sua capacità minima di vocabolario” 5
e ancora: “Quello che cambia, quello che permette all'albero di mantenersi vivo e non seccarsi è la struttura, mai l'argomento” 6.
Sforzi diretti non tanto a ridurre la complessità quanto ad accettare il disordine. Il caos è parte del mondo e quindi viene introiettato dalla forma romanzo.

E la capacità di orientarsi nel disordine parte dell’esistenza è prerogativa dei suoi personaggi, dai due detective fino ad Arcimboldi (Un tipo che non voleva conciliare l’inconciliabile, come è di moda adesso). In 2666 lo stesso Arcimboldi si trova a leggere il taccuino di un suo coetaneo russo che In una delle sue ultime annotazioni menziona il disordine dell’universo e dice che solo in questo disordine siamo concepibili.[…]
La complessità, tuttavia, lo fa ridere, e a volte sua madre lo sente ridere in soffitta, come quando aveva dieci anni. Ansky pensa a universi paralleli. In quei giorni Hitler invade la polonia e inizia la seconda guerra mondiale. Caduta di Varsavia, caduta di Parigi, attacco all’Unione Sovietica. Solo nel disordine siamo concepibili. 7   






NOTE
1     I detective selvaggi, Roberto Bolaño, Sellerio 2009, pag. 248
2     I detective selvaggi, Roberto Bolaño, Sellerio 2009, pag. 269
3     2 agosto 1999, Roberto Bolaño, discorso a Caracas in occasione della consegna del premio  

      Rómulo Gallegos per il suo romanzo I detective selvaggi.
4    Il teatro e il suo doppio, Antonine Artaud, Einaudi 200
5    
5    Se vivessi in Cile nessuno mi avrebbe perdonato questo romanzo, intervista di Melanie Jösch,      2000, http://www.archiviobolano.it
6    Quattordici domande a Bolaño, intervista di Daniel Swinburn 2003, 
      http://www.archiviobolano.it
7    2666, Roberto Bolaño, Adelphi 2011, pag. 796


1 commento:

  1. due frasi mi hanno molto colpito anche perchè mi trovano perfettamente d'accordo:
    Ulises e Arturo si muovono come noi occidentali non riusciamo a fare. Liberi da programmi, vivono di espedienti, si fanno ospitare si innamorano e ripartono

    Dietro alla ricchezza del cosmo bolaniano c’è un’attenzione rigorosissima alla struttura. L’apertura di ogni romanzo, quella sorta di abbandono narrativo al suo interno sono possibili solo grazie a una diversa forma di controllo.

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