martedì 4 dicembre 2012

BREAKING BAD? 2

Seconda e ultima parte.













SULLA VIOLENZA
Prendiamo due scene:

Il cortile polveroso di un demolitore. Tra le colonne di rottami si incontrano Eisenberg, Jesse e Tuco. La luce è accecante. Tuco è un pezzo medio del cartello che lavora sulla frontiera tra Messico e States. Tarchiato e teso, dente d’oro e quattro scherani alle spalle. La tensione lega i movimenti dei due bianchi che hanno superato gli intermediari per vendere direttamente al messicano.
Tuco davanti alla maschera di Eisenberg che finge di non tremare, Jesse due passi indietro.
Ride troppo alle richieste dei due. Poi prova la metanfetamina purissima di Eisenberg. Ribalta la testa, si comprime le meningi. Cerca di smaltire il colpo scaricando a terra i nervi. Quando torna in equilibrio chiede il prezzo.
Ma qualcosa va storto, un suo tirapiedi fa una battuta di troppo, lui perde la testa e lo ammazza a pugni. Lo atterra e continua a colpirlo in mezzo agli occhi, il corpo arreso ai sussulti nervosi della morte. Tutto in primo piano, la camicia e il grugno di Tuco coperti del sangue che schizza dal volto maciullato del suo uomo.


Oppure:

Jesse e la sua compagna. Dentro la melma della tossicodipendenza, accampati nella villa disadorna di Jesse. Lei ne era uscita e ha ripreso con lui. Seguono i ritmi circadiani delle sostanze, accerchiati dal baratro dell’abbandono e dell’incuria. Il senso scompare dai loro occhi in astinenza, i cartoni di pizza coprono il pavimento, lattine aperte e mozziconi sul comodino. Dormono in trance, a terra il laccio emostatico.
White è in piedi di fianco al letto – non l’hanno sentito rompere la finestra, è entrato per prendere i soldi.
Jane – che ha minacciato di denunciarlo – gli semplifica il secondo lavoro. Inizia a vomitare senza svegliarsi. White la guarda affogare, la uccide rimanendo immobile, trattenendo conati di vomito e pianto per non svegliare Jesse. Lei apre gli occhi vitrei per pochi secondi. Jesse la scopre la mattina e precipita nel proprio disastro.

Gli elementi che amplificano l’impatto della violenza oltre alla familiarità con i personaggi (la serie crea solidi rapporti d’amicizia rispetto alla conoscenza più distaccata  del film) sono l’esibizione oscena dei particolari e il realismo delle circostanze. Condizioni che non permettono di trascendere emotivamente la ripresa della morte. I pugni di Tuco bucano lo stomaco e la morte di Jane si percepisce attraverso la sensibilità di Jesse.
Tutto troppo per un drammone immolato al divertimento. L’intensità del registro adottato appartiene alla tragedia, nei meandri di Breaking bad suona come una manipolazione disonesta di corde che non gli competono.

La fiction fine a sé stessa ha tutto il diritto di esistere quanto il dovere di non vendicare i propri limiti sconfinando in altri campi.
Battere i tasti del macabro e dell’orrore privato, dopo aver consumato quelli dell’emotività a buon mercato, sembra diventato uno dei pochi strumenti di attrazione di molte forme di racconto. (Su registri più bassi è lo stesso untuoso ricatto di programmi televisivi come Le Iene – dove passa per denuncia sociale la soddisfazione della morbosità del pubblico. Tutti i casi di pedofilia, tossicodipendenza, prostituzione, sfruttamento minorile ripresi in soggettiva sono una bancarella di orrori e oscenità a costo zero. Al tempo stesso la dedizione a questi macabri teatrini allontana generosamente dai propri, di terrori – io sono l’occidente perché il terrore sono gli altri).

Diverso quello che succede nella serie The wire, anche qui si sprecano gli episodi di violenza, in un escalation che avanza con il succedersi delle stagioni. Ma le esecuzioni di strada e l’oscenità della morte raggiungono, senza valicarlo, il sottile limite che divide il valore testimoniale dalla strumentalizzazione accattivante.
The wire è un capolavoro perché riesce a unire il godimento della fruizione a uno sguardo penetrante e onesto sul reale (racconta di Baltimora e della società americana unendo una deontologia quasi documentaristica alla presa di una crime-fiction ben fatta).
Difficilmente si raggiungono simili alchimie, si avvicinano i casi di Treme, sulla ripresa di New Orleans dopo il passaggio dell’uragano Katrina, anche se con tenuta più bassa e Generation kill, la miniserie sull’invasione dell’Iraq dal punto di vista dei marines.

Altro ancora quando la violenza è cifra narrativa e ossessione – il cinema di Refn – o connaturata al contesto – A winter’s bone. In questo caso il cinema ha forti, e tutt'altro che didascalici, connotati antropologici. Il film restituisce il quadro di una comunità dimenticata nella provincia americana, reso attraverso un racconto essenziale, dal basso, in cui la ferocia del linguaggio cinematografico riprende i codici di comportamento.
La narrazione arriva nella periferia arroccata sui monti del Missouri, mostrando leggi e costumi rudimentali di quell’ambiente lontano dalla società civile. La violenza primitiva è parte di quel linguaggio, nessuno escluso.
O ancora quando non lascia scampo come in 13, dove prima è illusoria via di fuga e poi nemesi ferale. E qui più che creare uno shock magnetico ha l’effetto di uno spasmo della durata di tutto il film.

In Breaking bad invece tutti i soggetti della narrazione sono disancorati dal reale. Non incidono sul contesto storico-sociologico. Poco o niente veniamo a sapere in cinquanta ore di serie sul consumo della metanfetamina e i controversi territori di confine tra Messico e Stati Uniti sono ridotti a sterile, quanto scenografica, zona di scambio o produzione di droga. Lontanissime anche le tracce della crisi economica e le falle della società americana.

A questo punto mi si potrebbe rinfacciare di averla fatta troppo lunga. Risponderò al perché:
Uno, per pigrizia e un misto tra attrazione e ripulsa e indolenza ho guardato tutti gli episodi delle cinque stagioni.
Due, più consumavo B.B. più la trovavo indigesta. Benché di alto livello estetico, anzi soprattutto perché di alto livello, non fa che aggiungersi all’insieme di fenomeni culturali che intorbidano le acque del racconto. E oggi è proprio attraverso il racconto che passa la maggior parte dei messaggi della società dell’informazione. Il narrare disonesto rema nella direzione contraria alla formazione di uno sguardo critico e lucido sul presente.

Nessun commento:

Posta un commento