Seconda e ultima parte.
SULLA VIOLENZA
SULLA VIOLENZA
Prendiamo
due scene:
Il
cortile polveroso di un demolitore. Tra le colonne di rottami si incontrano
Eisenberg, Jesse e Tuco. La luce è accecante. Tuco è un pezzo medio del
cartello che lavora sulla frontiera tra Messico e States. Tarchiato e teso,
dente d’oro e quattro scherani alle spalle. La tensione lega i movimenti dei
due bianchi che hanno superato gli intermediari per vendere direttamente al
messicano.
Tuco
davanti alla maschera di Eisenberg che finge di non tremare, Jesse due passi
indietro.
Ride
troppo alle richieste dei due. Poi prova la metanfetamina purissima di
Eisenberg. Ribalta la testa, si comprime le meningi. Cerca di smaltire il colpo
scaricando a terra i nervi. Quando torna in equilibrio chiede il prezzo.
Ma
qualcosa va storto, un suo tirapiedi fa una battuta di troppo, lui perde la
testa e lo ammazza a pugni. Lo atterra e continua a colpirlo in mezzo agli
occhi, il corpo arreso ai sussulti nervosi della morte. Tutto in primo piano,
la camicia e il grugno di Tuco coperti del sangue che schizza dal volto maciullato
del suo uomo.
Oppure:
Jesse
e la sua compagna. Dentro la melma della tossicodipendenza, accampati nella
villa disadorna di Jesse. Lei ne era uscita e ha ripreso con lui. Seguono i
ritmi circadiani delle sostanze, accerchiati dal baratro dell’abbandono e
dell’incuria. Il senso scompare dai loro occhi in astinenza, i cartoni di pizza
coprono il pavimento, lattine aperte e mozziconi sul comodino. Dormono in
trance, a terra il laccio emostatico.
White
è in piedi di fianco al letto – non l’hanno sentito rompere la finestra, è
entrato per prendere i soldi.
Jane
– che ha minacciato di denunciarlo – gli semplifica il secondo lavoro. Inizia a
vomitare senza svegliarsi. White la guarda affogare, la uccide rimanendo
immobile, trattenendo conati di vomito e pianto per non svegliare Jesse. Lei
apre gli occhi vitrei per pochi secondi. Jesse la scopre la mattina e precipita
nel proprio disastro.
Gli
elementi che amplificano l’impatto della violenza oltre alla familiarità con i
personaggi (la serie crea solidi rapporti d’amicizia rispetto alla conoscenza
più distaccata del film) sono
l’esibizione oscena dei particolari e il realismo delle circostanze. Condizioni che non permettono di trascendere emotivamente la ripresa della morte. I pugni
di Tuco bucano lo stomaco e la morte di Jane si percepisce attraverso la
sensibilità di Jesse.
Tutto
troppo per un drammone immolato al divertimento. L’intensità del registro
adottato appartiene alla tragedia, nei meandri di Breaking bad suona come una manipolazione disonesta di corde che
non gli competono.
La
fiction fine a sé stessa ha tutto il diritto di esistere quanto il dovere di
non vendicare i propri limiti sconfinando in altri campi.
Battere
i tasti del macabro e dell’orrore privato, dopo aver consumato quelli
dell’emotività a buon mercato, sembra diventato uno dei pochi strumenti di
attrazione di molte forme di racconto. (Su registri più bassi è lo stesso
untuoso ricatto di programmi televisivi come Le Iene – dove passa per denuncia sociale la soddisfazione della
morbosità del pubblico. Tutti i casi di pedofilia, tossicodipendenza,
prostituzione, sfruttamento minorile ripresi in soggettiva sono una bancarella
di orrori e oscenità a costo zero. Al tempo stesso la dedizione a questi
macabri teatrini allontana generosamente dai propri, di terrori – io sono l’occidente perché il terrore sono
gli altri).
Diverso quello che succede nella serie The wire, anche qui si sprecano gli
episodi di violenza, in un escalation che avanza con il succedersi delle
stagioni. Ma le esecuzioni di strada e l’oscenità della morte raggiungono, senza valicarlo, il sottile limite che divide il valore testimoniale dalla
strumentalizzazione accattivante.
The wire è un capolavoro perché
riesce a unire il godimento della fruizione a uno sguardo penetrante e onesto
sul reale (racconta di Baltimora e della società americana unendo una
deontologia quasi documentaristica alla presa di una crime-fiction ben fatta).
Difficilmente si raggiungono simili alchimie, si
avvicinano i casi di Treme, sulla
ripresa di New Orleans dopo il passaggio dell’uragano Katrina, anche se con
tenuta più bassa e Generation kill,
la miniserie sull’invasione dell’Iraq
dal punto di vista dei marines.
Altro ancora quando la violenza è cifra narrativa e
ossessione – il cinema di Refn – o
connaturata al contesto – A winter’s bone.
In questo caso il cinema ha forti, e tutt'altro che didascalici, connotati
antropologici. Il film restituisce il quadro di una comunità dimenticata nella
provincia americana, reso attraverso un racconto essenziale, dal basso, in cui
la ferocia del linguaggio cinematografico riprende i codici di comportamento.
La narrazione arriva nella periferia arroccata
sui monti del Missouri, mostrando leggi e costumi rudimentali di quell’ambiente
lontano dalla società civile. La violenza primitiva è parte di quel linguaggio,
nessuno escluso.
O ancora quando non lascia scampo come in 13, dove prima è illusoria via di fuga e
poi nemesi ferale. E qui più che creare uno shock magnetico ha l’effetto di uno spasmo della durata di tutto il film.
In Breaking
bad invece tutti i soggetti della narrazione sono disancorati dal reale.
Non incidono sul contesto storico-sociologico. Poco o niente veniamo a sapere
in cinquanta ore di serie sul consumo della metanfetamina e i controversi
territori di confine tra Messico e Stati Uniti sono ridotti a sterile, quanto
scenografica, zona di scambio o produzione di droga. Lontanissime anche le
tracce della crisi economica e le falle della società americana.
A questo punto mi si potrebbe rinfacciare di averla
fatta troppo lunga. Risponderò al perché:
Uno, per pigrizia e un misto tra attrazione e
ripulsa e indolenza ho guardato tutti gli episodi delle cinque stagioni.
Due, più consumavo B.B. più la trovavo indigesta.
Benché di alto livello estetico, anzi soprattutto
perché di alto livello, non fa che aggiungersi all’insieme di fenomeni
culturali che intorbidano le acque del racconto. E oggi è proprio attraverso il
racconto che passa la maggior parte dei messaggi della società
dell’informazione. Il narrare disonesto rema nella direzione contraria alla
formazione di uno sguardo critico e lucido sul presente.
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