sabato 29 dicembre 2012

IO MI OPPONGO

50 anni fa usciva La vita agra, brucio il 2012 con un ricordo di Luciano Bianciardi.



Un uomo nato in Toscana racconta la sua migrazione al nord. Sono i “miracolosi” anni ‘60 e Milano è l’avamposto del cambiamento.
Si sistema alla Braida del Guercio (Brera), isola bohème nel mezzo dell’isteria cittadina. Qui resistono ancora i colori sulle gonne e sulle guance delle studentesse di belle arti, e nelle osterie e nei bar si affollano i sogni di pittori, fotografi e poeti che tirano l’alba a straparole e vinaccio. Vive in una stanza doppia, umida e stretta, dalle pareti sottili passano i colpi di tosse dei pelotari con la bronchite cronica e i litigi dei giornalisti affamati. Tutti a pigione dalla vedova De Sio che sbarca a stento il lunario con due figlie malmaritate per casa.

Fuori dalla Braida invece soffia un vento ostile e la fretta scandisce la marcia dei passanti accecati dal lavoro. Mal si addice a questo ritmo il suo passo strascicato e incerto. Mani affondate nelle tasche, nessuna meta, il narratore importa al nord quel camminare per camminare, seguire i pensieri, perdersi che in città è perseguito per legge. «Lei camminava lentamente, e si è fermato due volte. Dove andava?» «A passeggio» «Ah si, a passeggio? Lei va a passeggio senza cravatta? Da solo? E non tira dritto per la sua strada? Va così lentamente? e si ferma?»

Perché in città l’importante è produrre, anzi fare polvere – cioè dare l’idea di produrre – a scapito di tutto. E se c’è da annientarsi ci si annienta. Un sacrificio di massa in onore del consumo, un meccanismo oliato dalla branca dei lubrificatori sociali, professionisti addetti a fabbricare e instillare bisogni – grafici, pubblicitari, PR e demodossologi. Faranno insorgere bisogni mai sentiti prima. Chi non ha l'automobile l'avrà, e poi ne daremo due per famiglia, e poi una a testa, daremo anche un televisore a ciascuno, due televisori, due frigoriferi, due lavatrici automatiche, tre apparecchi radio, il rasoio elettrico, la bilancina da bagno, l'asciugacapelli, il bidet e l'acqua calda. A tutti. Purché tutti lavorino, purché siano pronti a scarpinare, a fare polvere, a pestarsi i piedi, a tafanarsi l'un con l'altro dalla mattina alla sera.

Ma c’è un giorno che il sole perfora la cappa di nebbia acrimoniosa, sorvola le teste degli ectoplasmi affaccendati anche per la festa e inonda la sua strada.
È domenica e lui è al bar delle Antille a bere caffè, le gambe distese. Quando Anna passa a rapirlo, Anna la rivoluzionaria, compagna di sventura, da adesso sempre al suo fianco giorno e notte. Anna che dorme serena sopra alle sue angosce.

Indietro e dall’altra parte ci sono la toscana natale, la moglie e il bambino, lo scoppio della miniera. Perché ha lasciato al paese la famiglia, la diligente Mara che ogni giorno prepara i pasti, rigoverna casa e scrive lunghe lettere a Milano – che  stanno bene, gli mandi il mensile, il figlio cresce e la vita rincara.
E lui e Anna a fare i conti ogni settimana per coprire le spese. Lui che mette insieme collaborazioni a giornali e riviste, poi un lavoro stabile, licenziamenti e nuove collaborazioni e “finalmente” la traduzione. Da casa, attaccato alla macchina da scrivere come a una linea di montaggio, quattro cartelle all’ora, venti al giorno, sette giorni su sette. Sei cartelle per Mara, quattro per l’affitto, due per il vitto, le rate per i vestiti, qualche decina di righe per le sigarette e magari un cinema. E se non tornano i conti si fanno di nuovo, daccapo ogni settimana, tutti i mesi.

Il suo scopo era un altro però. È venuto su per farla pagare alla società di estrazione che ha lasciato scoppiare la miniera in Toscana. Con dentro quarantatre uomini. Avrebbe fatto saltare in aria il torracchione, la sede della società. Perché lui era là, sapeva com’era andata, lo sfruttamento sregolato della miniera per tirar fuori più lignite e denaro. Fino allo scoppio, qualche milione di rimborso alle famiglie e argomento chiuso. Ma trovare complici è dura e scriverne è tardi, la notizia ha già un anno, è vecchia e sepolta.

E allora rimane un solo modo per sganasciare il sistema del fatturato a ogni costo. È una rivoluzione che non si fa a cominciare dalle sedi di partito né facendo brillare il torracchione. No, si tratta di una regressione, un salto all’indietro, a un’economia basata sul dono. Si parte dall’abbattimento dei bisogni per arrivare all’abbandono totale. Via la tecnologia, le case, le macchine, le fabbriche. Non si compra né si produce, non si alleva e non si coltiva più. Ma neanche si baratta. No, si dona. Si regala. Regneranno il nomadismo, la poligamia, la fraternità disinteressata, la cultura orale. Un’unica allargata comunità, un neocristianesimo a sfondo disattivistico e copulatorio.   

Sul finire però gli amici della Braida spariscono, rimane solo la lotta per la sopravvivenza, la sodalità appartata con Anna, le traduzioni logoranti, i conti.
Lassù mi hanno ridotto che a fatica mi difendo, lassù se cadi per terra nessuno ti raccatta, e la forza che ho mi basta appena per non farmi mangiare dalle formiche, e se riesco a campare, credi pure che la vita è agra lassù.
Il racconto diventa una distopia al presente. I piccoli progressi invece di affrancarli li incatenano, la casa porta nuove spese, tasse e reggimenti di tafanatori a vendergli assicurazioni e riscuotere rate e bollette. Si barricano in casa a tradurre.
Fino alla morte rituale. Che è la parte oscura dell’efficientismo, di una realtà in cui non c’è posto per la memoria dei perdenti. Così gli amici Enzo, Marina e Remo, abbandonati ai propri fallimenti, spinti al suicidio e dimenticati dalla comunità. È questa la sua paura più grossa, l’agonia della solitudine – che ribalta come sempre nello scherno e nell’iperbole, progettando il proprio funerale, laico e partecipato.
















È il 1962 quando viene pubblicato La vita agra. Gli otto anni trascorsi da quando l’autore si è trasferito a Milano (all’età di 32 anni) hanno liberato le forze latenti del boom e le sue contraddizioni.
Tra il ‘58 e il ‘60 la produzione industriale aumenta del 90%, si divarica la forbice nord-sud e centro-provincia, la realtà televisiva poggia le sue prime pietre e insieme ai consumi inizia a dare forma al linguaggio medio trans-regionale.
Milano è specchio del cambiamento, perfino anticipatore per chi è in grado di guardarlo da vicino. Bianciardi ha gli strumenti per comprendere sul farsi i cambiamenti della società italiana, le manie e le sue ossessioni. Ma La vita agra non nasce da una riflessione a freddo. 

Luciano ha un carattere nemico del compromesso. Assoldato in Feltrinelli, resiste poco più di un anno. Non sopporta l’atteggiamento dell’intellettuale – pezzo dell’apparato burocratico commerciale –  e il linguaggio se non è naturale e spontaneo, la chiacchera intellettuale. Denuncia la deriva pubblicitaria della cultura. La sua opposizione intransigente però diventa isolamento. E da questo cortocircuito nasce il suo capolavoro. Dopo uscirà di scena.

Perso il posto fisso inizia a tradurre. In pochi anni più di cento titoli – tra gli altri Faulkner, Kerouac, Bellow e Miller. Continua a collaborare con alcune testate giornalistiche e riviste letterarie, ai suoi libri si dedica nel tempo libero.
Nel lavoro culturale (’57) riattraversa la provincia da cui è fuggito, i fermenti del dopoguerra e le paludi. L’integrazione (’60) sposta il bersaglio dei suoi strali sull’esperienza in casa editrice; ma entrambi, benché importanti, vendono poche copie.
E Luciano continua a consumarsi sulla macchina da scrivere, cercando di far quadrare i conti, conciliando il suo modo di vivere rigoroso e scompigliato. Lavora solo e respinge l’ambiente che lo circonda. Mangia in osterie a buon mercato, grappa cattiva sul comodino e nazionali senza filtro.
Frequenta pochi ex colleghi della Feltrinelli e persone che conosce per caso durante le passeggiate notturne.  

Negli stessi anni escono altri quattro libri che si insediano efficacemente nel loro tempo. Volponi nel Memoriale e Ottieri con Donnarumma all’assalto mettono a fuoco lo schianto di una tardiva industrializzazione sulla società italiana.
Sulla provincia fermano lo sguardo Mastronardi e Meneghello. Il calzolaio di Vigevano ritrae l’indotto artigiano delle ossessioni che portano alla nevrosi industriale della città. “Vigevano è per me il mondo in piccolo: una realtà fatta di grettezza, di avarizia, di sporcizia, ma anche una realtà sensibile a ogni mutamento politico e sociale”. Meneghello con Libera nos a malo fotografa il cambiamento in negativo, tramite la ricostruzione del microcosmo in cui è cresciuto nel momento in cui si sta dissolvendo.

La vita agra non è migliore di questi libri, ma più urgente e viscerale. E il ritmo incessante del racconto tradisce da subito la sua necessità. Scritto di domenica in pochi mesi, contiene (a fatica) la rabbia del suo autore. Il conflitto con la realtà milanese supera la dimensione personale e diventa parodia amara di un momento storico. Il linguaggio dell’eccesso racconta i nuovi costumi: la frenesia della vita quotidiana, la corsa all’acquisto, l’inscatolamento del tempo libero, l’anonimato dei rapporti interpersonali. Il frastuono costante.
Questo modo di vivere genera una galleria di stereotipi grotteschi, le ballerine magre rifinite dalla famegli operai limatori di ghisa con le manile segretariette secche, senza sedere, inteccherite da parer di sale; la portiera rimpicciolita e smagrita dalla cattiveria.
Il tutto filtrato dal vernacolo toscano, esuberante e poliedrico (tecnico, lirico e colloquiale insieme). Immediato e di una concretezza quasi tangibile.  

Nell’arco di poche settimane La vita agra vende migliaia di copie, Montanelli lo consacra sul Corriere. Bianciardi si fa prestare un vestito elegante e inizia le presentazioni.
La notorietà lo introduce nei salotti bene e nella girandola di feste private – a cui prende parte, senza mai rinunciare a sfottere i presenti.
Da un lato odia la reazione al suo libro. Capisce che la sua critica sofferta è diventata un altro bene di consumo – oggi è un fatto accettato, allora no. Le forze per arrabbiarsi però sono finite e così capovolge l’indignazione in un’adesione autodistruttiva al sistema.
Rifiuta risoluto la collaborazione al Corriere della sera. Nel ‘63 il libro diventa un film con Tognazzi.

Sono gli anni dello spettacolo indorato che cresce a tarda notte nei locali di fama e unisce personaggi del cinema, artisti, cantanti e cabarettisti – anticipando il baraccone della tv commerciale di pochi anni dopo. E Luciano partecipa per gioco alla controparte della vita agra, si prende il peggio, quasi per una forma di contrappasso al contrario (oltre che per ritorsione contro sé stesso).
Una possibile interpretazione del suo atteggiamento è questa: non ha mediato prima non lo fa dopo, passa da un estremo all’altro. Ha rifiutato la sicurezza e la compromissione al sistema drogato dell’industria cultural-promozionale (a costo di otto anni di isolamento e lavoro oscuro) con la stessa fermezza con cui adesso sprofonda negli scarichi di quel sistema. Se deve compromettersi lo fa senza mezze misure, lì la finzione è minore proprio perché più palese.
Beve smodatamente e sbanca nelle serate con il suo bagaglio infinito di battute. Esce con molte donne, dirada il lavoro. Nella rubrica giornalistica “Telebianciardi” prende di mira il qualunquismo deleterio della realtà televisiva. È definitivamente alle spalle il periodo degli stenti, ma lui non si cura dei soldi, non gli interessano se non per liberarsi dalle traduzioni.

L’altra faccia della medaglia rimane la sua Grosseto, dopo il “successo” (è solo il participio passato del verbo succedere) realizza drammaticamente di averla persa. Adesso che può rallentare si accorge della distanza che si è venuta a creare tra lui e il suo paese natale. Di più, ne è respinto. Viene denunciato da un concittadino che nel libro compare con il suo vero nome. Soffre della distanza che lo divide dai figli.
L’esperienza che lo aveva definitivamente allontanato dalla Maremma nel ‘54 è lo scoppio della miniera di Ribolla. In quel periodo scriveva per l’Avanti! un’inchiesta sulle condizioni di lavoro dei minatori. Dal disastro nasce un libro a quattro mani con Cassola (I minatori della Maremma) e la fuga verso il centro.

Gli ultimi anni di Bianciardi sono una discesa agli inferi. Fino al compimento di un logorante suicidio annunciato. Non fa niente per curarsi dall’alcolismo in cui precipita. Si allontana da Milano insieme alla compagna isolandosi a Rapallo. Collabora con giornali minori, scrive di sport, pubblica una serie di libri sul risorgimento. Torna a Milano poco prima della morte, al suo funerale ci saranno meno di dieci persone.  
La voce della vita agra si spegne nel novembre del 1971. Ma risuona ancora attuale nelle pagine di un libro dalla vitalità inesauribile che espone i segni di una battaglia – quella tra l’intellettuale e la società neocapitalista e più a fondo tra l’uomo e la società – e aiuta a leggere in modo sarcastico e lucido quella parte di storia in cui erano già presenti molte delle deformazioni che oggi si sono consolidate.



Questo pezzo nasce dalla lettura dei libri di Luciano Bianciardi e della biografia che gli ha dedicato Pino Corrias, Vita agra di un anarchico, Baldini & Castoldi, 1993.

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