Holy motors
Amore
è azione. Una danza convulsa e innervata da Modern
love di David Bowie, di corsa attraverso i marciapiedi di un arrondissement
nelle retrovie di Parigi, lo stesso ragazzo che traghetta Anna di là dalla
strada, in braccio perché è scalza e l’asfalto scotta, le sue braccia che
sollevano e ribaltano un maggiolone parcheggiato fuori dall’albergo, dopo
averla salutata, il telefono di lei che squilla, la sua voce muta risponde:
Devo proprio dirtelo… io sento per
te… quando mi sei vicina è come se io fossi vicino a tutti, da moltissimo tempo
…
no non è
la vita o forse sì, ma non me ne importa
non è la vita anna è te che amo
vedrai, ora metto giù. (Mauvais
sang)
O
consumare le suole di scarpe insaziabili in un peregrinaggio metropolitano,
rabdomantico e inesausto, per trovare tregua da una storia appena finita e
incontrare nuovamente la persona che ci rapisce. Nella festa centro di gravità
di Boy meets girl. Alex finirà per
non contenere il proprio stato d’animo e riversare su Mireille la portata
travolgente del suo essere, in una parresia vertiginosa. Con un’urgenza e una
necessità che non sono mai egoistica ricerca di salvezza ma salto nel vuoto,
innocente e religioso abbandono.
O
sparare sette colpi in aria e un tiro alla fune ubriaco sul parapetto del Pont
Neuf, mentre Strong Girl di Iggy Pop sovrasta l’artiglieria dei fuochi
d’artificio sulla Senna, e poi solcare le acque nere e sfuocate del fiume sopra
uno sci d’acqua prima di tornare ad avvolgersi dentro ai cenci in un anfratto
del ponte, e aspettare che il sonnifero sprofondi nel sonno la memoria distorta
e sovraccarica di quella cosa che
solo dopo diventa parole.
Parole
che mentre Michele dorme, Alex le nasconde nella borsa.
Qualcuno vi ama, se amate qualcuno
domani gli direte «il cielo è bianco oggi» se sono io risponderò «ma le nuvole
sono nere», così sapremo che ci si ama
Leos
Carax è un regista che crede
nell’azione e nell’amore, e li fonde inseparabilmente in una tragedia che alterna
morte e vita, impossibile e ordinario. L’innocenza surreale e sincopata di Boy meets girl segue l’intimità del suo
protagonista e si amplifica in Mauvais
sang, in cui si alternano visioni oniriche e ingenue narrazioni fuori
campo. Nei primi due film si insinuano piccole crepe sul cinema che però
tornano a suturarsi nel terzo. La sintassi degli Amanti si appiana, mentre il soggetto per reazione implode.
L’abbraccio
disperato degli emarginati che gonfi d’alcool riescono a credere nel loro
abbraccio contro la violenza, il freddo, la fame, l’insonnia, la deturpazione
delle giornate immolate sul Pont Neuf, non è che una nuova emersione dell’energia
distruttiva e vitale che continua a muovere i passi dell’alter ego del regista,
Denis Lavant. E se il finale sembra sciogliere la tragedia, in realtà non fa
che dissimulare l’alternarsi tragico di amore e morte, fotografando una delle
due posizioni nella sua pienezza (e quindi caducità).
Ma
se vogliamo avvicinare il nucleo della poetica di Carax, dobbiamo provare per
sottrazione. E tolta la capacità di raccontare e far succedere, l’introiezione
di un linguaggio letterario, la fascinazione mai strumentale della bellezza
strappata allo squallore e all’osceno, il senso del ritmo, la potenza di uno
sguardo che riesce a confondere ordinario e surreale, dare assoluta plausibilità
a quello che non può essere – senza che questo crei dissonanza ma al contrario
cortocircuito di senso inatteso. Tolto tutto insomma, la forza magnetica che
attanaglia lo spettatore allo stomaco, dopo essere passata empaticamente da
Carax a Lavant, è quel credere.
Bene,
ora immaginate tutti questi elementi sovrapposti a formare una torre di legno davanti
a voi sul tavolo. È lo jenga di Carax,
costruito abbattuto e costruito di nuovo nei trent’anni che lo separano dall’uscita
di Boy meets girl. Avvicinate la mano
con cui scrivete alla costruzione e sottraete uno alla volta i blocchi di legno
della base.
Sì,
proprio così, provate a eliminare il piano della fede, l’elemento che un attimo fa abbiamo eletto a radice profonda
e oscura del suo racconto.
Sfilato
l’ultimo tassello, chiudete gli occhi prima che la torre cada a pezzi e mettete
a fuoco l’immagine mentale di quella disgregazione. Ecco Holy motors.
È
mattina presto quando monsieur Oscar viene prelevato da una limousine nel
sobborgo smaltato in cui ha passato la notte. Saluta la figlia alla finestra e
inizia a scorrere gli impegni della giornata, discutendo d’affari al telefono.
Approdata
nel centro di Parigi, la macchina si accosta al marciapiede e il protagonista
scende a mendicare nei panni di una clochard rattrappita.
Di
nuovo a bordo, indossa una tuta nera prima di essere accompagnato davanti a un
capannone industriale. Buio. Sciabolate, addestramento marziale in motion capture tra fasci di luce e
videoproiezioni. Pausa. Entra una carmilla
bionda, coperta da una membrana di latex. L’impatto scopico si sublima nell’amplesso
finale, in cui convergono gestualità arcaiche e pornografia virtuale.
Quando
sale in macchina dopo il secondo impegno penso a Cosmopolis (il libro). Due
uomini attraversano le loro città dentro a una limousine, sottoponendosi a una
serie di prove per provocare e prendere contatto con la realtà. Il primo autodistruggendosi, il secondo mascherandosi. Sullo
sfondo Parigi e New York.
Ancora
nell’abitacolo si accende una sigaretta e apre una confezione di sushi
take-away. Mentre mangia impreca, poi indossa una lente a contatto bianca, radi
capelli color rame, unghie ritorte e un vestito di velluto verde. Non sono più
solo sembianze quelle dentro cui Oscar attraversa il cimitero monumentale per
rapire una splendida Eva Mendez e trangugiando fiori strappati portarla via
sottobraccio. Scende nella cloaca fangosa, mangia ciocche dei suoi capelli e
dollari, la sveste, le vela il viso e si spoglia racchioccolandosi nudo in
grembo alla sua madonna con lo chador – pietà dissacrante che chiude la terza
prova. Non sono più solo sembianze, è travestimento identitario, metamorfosi
spirituale.
Oscar è un attore. Recita quotidianamente per il pubblico privilegiato di un canale a pagamento, possiamo immaginare, che si nutre di una finzione catartica, trasferita in un teatro di strada in cui si confondono attori e comparse ignare. Chi osserva (il pubblico invisibile e lo spettatore di Holy motors) è proiettato virtualmente in una serie di esperienze – l’uccisione del banchiere e la propria morte, la violenza di un padre frustrato o la fine di una vita – che lo addentrano (o meglio lo calano, perché è una catabasi quella a cui assistiamo) nei meandri di un presente frantumato e caleidoscopico.
Si
succederanno altri episodi, microcosmi sovraccarichi di significato che
racchiudono intatta la crudeltà e la forza dei film precedenti mentre tradiscono
la menzogna che sta alla base del meccanismo cinematografico. Mostrare che è
tutto finto, opera di un attore, è contestare la natura del cinema, equipararlo
a un’eco della finzione onnipresente nella società spettacolarizzata, privarlo
di senso (quanti anni fa lo tumulava Carmelo Bene?).
E
non basta pensare che la bellezza resiste
nell’occhio di chi guarda, perchè l’effetto paradossale dell’iperfetazione
dello sguardo, dell’identità tra individuo e spettatore, è proprio la
sparizione del pubblico – E se non c’è
più nessuno a guardare? Riflette Oscar, che fine fa la bellezza?
Senza
contare che c’è un terzo livello diegetico a incrinare la credibilità della sua
storia, è il prologo del film, la scena in cui osserviamo il regista scendere
dal letto e approdare come in un sogno sopra alla platea addormentata di un
cinema spento.
Ma
realizzare un discorso sul cinema attraverso il cinema, sottende ovviamente una
residua fiducia nel linguaggio utilizzato.
Pensate
alla sovversione dei sei personaggi in
cerca d’autore. Nella pièce di Pirandello la finzione diventa soggetto
della commedia. Sei personaggi – che lottano per esistere ed essere
interpretati – portano sulla ribalta i meccanismi nascosti del teatro e ironicamente
potenziano quell’effetto di realtà che fanno vacillare.
In
Holy motors accade qualcosa di molto
simile. La finzione che impregna gli squarci di finzione rende più reale il
dramma di Oscar – che a sua volta mette in scena le visioni di Carax – e
insieme dà al cinema un'altra possibilità. Si può ancora raccontare. O meglio,
si deve ancora raccontare; nonostante tutto, compresa la messa in discussione
del racconto stesso. Quale sarà il prossimo passo nella direzione intrapresa, è
difficile anche solo pensarlo. Per il momento ci abbandoniamo a questa esigenza
narrativa e insieme alla capacità di intercettare la mutevolezza della società
liquida a cui apparteniamo, che esige costanti sforzi di adattamento e sforzi
ancora più grossi per rimanere coerentemente nei propri panni.
Il dramma per me è tutto qui,
signore: nella coscienza che ho, che ciascuno di noi – veda – si crede «uno» ma
non è vero: è «tanti», signore, «tanti», secondo tutte le possibilità d’essere
che sono in noi: «uno» con questo, «uno» con quello – diversissimi! E con
l’illusione intanto di essere sempre «uno per tutti», e sempre «quest’uno» che
ci crediamo, in ogni nostro atto. Non è vero! Non è vero!
(Sei personaggi in cerca d’autore, Einaudi 2006, pag. 45).
Non
solo. L’irrealtà quotidiana che ci circonda non può non riflettersi sul nostro
modo d’essere e di percepire. Assistere allo spettacolo e farne parte sono
diventati momenti indistinti, non è più possibile separare il reale dalla sua
riproduzione e non ha nemmeno più senso.
Un
padre impietoso in uno degli episodi rinfaccia alla figlia impacciata che la
punizione e insieme la pena più grossa della sua incapacità di vivere è essere chi è, vivere con se stessa.
L’apice
di questa critica (e dello smarrimento che provoca) si manifesta nell’incontro
tra due attori. È sera, Oscar ha quasi concluso gli impegni quotidiani (o forse
no e anche questo è un incontro previsto?) e la sua limousine si scontra con
quella di Jean.
Hanno
mezz’ora di tempo, entrano nel palazzo dei magazzini Samaritaine. Entrambi con
addosso le tracce dell’ultimo travestimento. Salgono le scale dell’edificio
abbandonato. Tenendosi per mano, aggrappati al ricordo neanche pronunciato di
un affetto reale prima del tempo della finzione, della metafora vivente che
sono diventati. Corpi di plastica a terra, divaricati e sparsi, Oscar calcia
una testa.
Who
were we? Si chiede prima di cantarlo Kilye Minogue (che interpreta Jean che
interpreta Vera Grace) who were we when we were who we were?
Jean
e oscar sono sulla terrazza del Samaritaine, esattamente di fronte al Pont Neuf,
dove si consumava l’amore tangibile e materico e creaturale degli amanti,
rovesciato nella storia inesistente tra due maschere irriconoscibili perfino a se
stesse.
Vero
e finzione si fondono, inevitabilmente. Oscar non avrà mai riposo, mentre la
sua autista dopo averlo accompagnato all’ultimo impegno e parcheggiato la
limousine, si scioglierà i capelli e indosserà una maschera per tornare in sé.
Guardate
Holy motors, rimarrete abbacinati,
dalla bellezza, smarriti. Capirete d’istinto d’avere a che fare con tutto
quello che succede. D’avere bisogno del cinema, di perdervi, di credere.
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