venerdì 4 ottobre 2013

E SE NON C'È PIÙ NESSUNO A GUARDARE?


Holy motors


Amore è azione. Una danza convulsa e innervata da Modern love di David Bowie, di corsa attraverso i marciapiedi di un arrondissement nelle retrovie di Parigi, lo stesso ragazzo che traghetta Anna di là dalla strada, in braccio perché è scalza e l’asfalto scotta, le sue braccia che sollevano e ribaltano un maggiolone parcheggiato fuori dall’albergo, dopo averla salutata, il telefono di lei che squilla, la sua voce muta risponde:
                                                                
Devo proprio dirtelo… io sento per te… quando mi sei vicina è come se io fossi vicino a tutti, da moltissimo tempo
no non è la vita o forse sì, ma non me ne importa 
non è la vita anna è te che amo vedrai, ora metto giù. (Mauvais sang)

O consumare le suole di scarpe insaziabili in un peregrinaggio metropolitano, rabdomantico e inesausto, per trovare tregua da una storia appena finita e incontrare nuovamente la persona che ci rapisce. Nella festa centro di gravità di Boy meets girl. Alex finirà per non contenere il proprio stato d’animo e riversare su Mireille la portata travolgente del suo essere, in una parresia vertiginosa. Con un’urgenza e una necessità che non sono mai egoistica ricerca di salvezza ma salto nel vuoto, innocente e religioso abbandono.
O sparare sette colpi in aria e un tiro alla fune ubriaco sul parapetto del Pont Neuf, mentre Strong Girl di Iggy Pop sovrasta l’artiglieria dei fuochi d’artificio sulla Senna, e poi solcare le acque nere e sfuocate del fiume sopra uno sci d’acqua prima di tornare ad avvolgersi dentro ai cenci in un anfratto del ponte, e aspettare che il sonnifero sprofondi nel sonno la memoria distorta e sovraccarica di quella cosa che solo dopo diventa parole.
Parole che mentre Michele dorme, Alex le nasconde nella borsa.

Qualcuno vi ama, se amate qualcuno domani gli direte «il cielo è bianco oggi» se sono io risponderò «ma le nuvole sono nere», così sapremo che ci si ama

Leos Carax è un regista che crede nell’azione e nell’amore, e li fonde inseparabilmente in una tragedia che alterna morte e vita, impossibile e ordinario. L’innocenza surreale e sincopata di Boy meets girl segue l’intimità del suo protagonista e si amplifica in Mauvais sang, in cui si alternano visioni oniriche e ingenue narrazioni fuori campo. Nei primi due film si insinuano piccole crepe sul cinema che però tornano a suturarsi nel terzo. La sintassi degli Amanti si appiana, mentre il soggetto per reazione implode.
L’abbraccio disperato degli emarginati che gonfi d’alcool riescono a credere nel loro abbraccio contro la violenza, il freddo, la fame, l’insonnia, la deturpazione delle giornate immolate sul Pont Neuf, non è che una nuova emersione dell’energia distruttiva e vitale che continua a muovere i passi dell’alter ego del regista, Denis Lavant. E se il finale sembra sciogliere la tragedia, in realtà non fa che dissimulare l’alternarsi tragico di amore e morte, fotografando una delle due posizioni nella sua pienezza (e quindi caducità).

Ma se vogliamo avvicinare il nucleo della poetica di Carax, dobbiamo provare per sottrazione. E tolta la capacità di raccontare e far succedere, l’introiezione di un linguaggio letterario, la fascinazione mai strumentale della bellezza strappata allo squallore e all’osceno, il senso del ritmo, la potenza di uno sguardo che riesce a confondere ordinario e surreale, dare assoluta plausibilità a quello che non può essere – senza che questo crei dissonanza ma al contrario cortocircuito di senso inatteso. Tolto tutto insomma, la forza magnetica che attanaglia lo spettatore allo stomaco, dopo essere passata empaticamente da Carax a Lavant, è quel credere.

Bene, ora immaginate tutti questi elementi sovrapposti a formare una torre di legno davanti a voi sul tavolo. È lo jenga di Carax, costruito abbattuto e costruito di nuovo nei trent’anni che lo separano dall’uscita di Boy meets girl. Avvicinate la mano con cui scrivete alla costruzione e sottraete uno alla volta i blocchi di legno della base.
Sì, proprio così, provate a eliminare il piano della fede, l’elemento che un attimo fa abbiamo eletto a radice profonda e oscura del suo racconto.
Sfilato l’ultimo tassello, chiudete gli occhi prima che la torre cada a pezzi e mettete a fuoco l’immagine mentale di quella disgregazione. Ecco Holy motors.

È mattina presto quando monsieur Oscar viene prelevato da una limousine nel sobborgo smaltato in cui ha passato la notte. Saluta la figlia alla finestra e inizia a scorrere gli impegni della giornata, discutendo d’affari al telefono.
Approdata nel centro di Parigi, la macchina si accosta al marciapiede e il protagonista scende a mendicare nei panni di una clochard rattrappita.
Di nuovo a bordo, indossa una tuta nera prima di essere accompagnato davanti a un capannone industriale. Buio. Sciabolate, addestramento marziale in motion capture tra fasci di luce e videoproiezioni. Pausa. Entra una carmilla bionda, coperta da una membrana di latex. L’impatto scopico si sublima nell’amplesso finale, in cui convergono gestualità arcaiche e pornografia virtuale.

Quando sale in macchina dopo il secondo impegno penso a Cosmopolis (il libro). Due uomini attraversano le loro città dentro a una limousine, sottoponendosi a una serie di prove per provocare e prendere contatto con la realtà. Il primo autodistruggendosi, il secondo mascherandosi. Sullo sfondo Parigi e New York.

Ancora nell’abitacolo si accende una sigaretta e apre una confezione di sushi take-away. Mentre mangia impreca, poi indossa una lente a contatto bianca, radi capelli color rame, unghie ritorte e un vestito di velluto verde. Non sono più solo sembianze quelle dentro cui Oscar attraversa il cimitero monumentale per rapire una splendida Eva Mendez e trangugiando fiori strappati portarla via sottobraccio. Scende nella cloaca fangosa, mangia ciocche dei suoi capelli e dollari, la sveste, le vela il viso e si spoglia racchioccolandosi nudo in grembo alla sua madonna con lo chador – pietà dissacrante che chiude la terza prova. Non sono più solo sembianze, è travestimento identitario, metamorfosi spirituale.





Oscar è un attore. Recita quotidianamente per il pubblico privilegiato di un canale a pagamento, possiamo immaginare, che si nutre di una finzione catartica, trasferita in un teatro di strada in cui si confondono attori e comparse ignare. Chi osserva (il pubblico invisibile e lo spettatore di Holy motors) è proiettato virtualmente in una serie di esperienze – l’uccisione del banchiere e la propria morte, la violenza di un padre frustrato o la fine di una vita – che lo addentrano (o meglio lo calano, perché è una catabasi quella a cui assistiamo) nei meandri di un presente frantumato e caleidoscopico.

Si succederanno altri episodi, microcosmi sovraccarichi di significato che racchiudono intatta la crudeltà e la forza dei film precedenti mentre tradiscono la menzogna che sta alla base del meccanismo cinematografico. Mostrare che è tutto finto, opera di un attore, è contestare la natura del cinema, equipararlo a un’eco della finzione onnipresente nella società spettacolarizzata, privarlo di senso (quanti anni fa lo tumulava Carmelo Bene?).
E non basta pensare che la bellezza resiste nell’occhio di chi guarda, perchè l’effetto paradossale dell’iperfetazione dello sguardo, dell’identità tra individuo e spettatore, è proprio la sparizione del pubblico – E se non c’è più nessuno a guardare? Riflette Oscar, che fine fa la bellezza?
Senza contare che c’è un terzo livello diegetico a incrinare la credibilità della sua storia, è il prologo del film, la scena in cui osserviamo il regista scendere dal letto e approdare come in un sogno sopra alla platea addormentata di un cinema spento.

Ma realizzare un discorso sul cinema attraverso il cinema, sottende ovviamente una residua fiducia nel linguaggio utilizzato.
Pensate alla sovversione dei sei personaggi in cerca d’autore. Nella pièce di Pirandello la finzione diventa soggetto della commedia. Sei personaggi – che lottano per esistere ed essere interpretati – portano sulla ribalta i meccanismi nascosti del teatro e ironicamente potenziano quell’effetto di realtà che fanno vacillare.
In Holy motors accade qualcosa di molto simile. La finzione che impregna gli squarci di finzione rende più reale il dramma di Oscar – che a sua volta mette in scena le visioni di Carax – e insieme dà al cinema un'altra possibilità. Si può ancora raccontare. O meglio, si deve ancora raccontare; nonostante tutto, compresa la messa in discussione del racconto stesso. Quale sarà il prossimo passo nella direzione intrapresa, è difficile anche solo pensarlo. Per il momento ci abbandoniamo a questa esigenza narrativa e insieme alla capacità di intercettare la mutevolezza della società liquida a cui apparteniamo, che esige costanti sforzi di adattamento e sforzi ancora più grossi per rimanere coerentemente nei propri panni.

Il dramma per me è tutto qui, signore: nella coscienza che ho, che ciascuno di noi – veda – si crede «uno» ma non è vero: è «tanti», signore, «tanti», secondo tutte le possibilità d’essere che sono in noi: «uno» con questo, «uno» con quello – diversissimi! E con l’illusione intanto di essere sempre «uno per tutti», e sempre «quest’uno» che ci crediamo, in ogni nostro atto. Non è vero! Non è vero!
(Sei personaggi in cerca d’autore, Einaudi 2006, pag. 45).

Non solo. L’irrealtà quotidiana che ci circonda non può non riflettersi sul nostro modo d’essere e di percepire. Assistere allo spettacolo e farne parte sono diventati momenti indistinti, non è più possibile separare il reale dalla sua riproduzione e non ha nemmeno più senso.
Un padre impietoso in uno degli episodi rinfaccia alla figlia impacciata che la punizione e insieme la pena più grossa della sua incapacità di vivere è essere chi è, vivere con se stessa.
L’apice di questa critica (e dello smarrimento che provoca) si manifesta nell’incontro tra due attori. È sera, Oscar ha quasi concluso gli impegni quotidiani (o forse no e anche questo è un incontro previsto?) e la sua limousine si scontra con quella di Jean.
Hanno mezz’ora di tempo, entrano nel palazzo dei magazzini Samaritaine. Entrambi con addosso le tracce dell’ultimo travestimento. Salgono le scale dell’edificio abbandonato. Tenendosi per mano, aggrappati al ricordo neanche pronunciato di un affetto reale prima del tempo della finzione, della metafora vivente che sono diventati. Corpi di plastica a terra, divaricati e sparsi, Oscar calcia una testa.
Who were we? Si chiede prima di cantarlo Kilye Minogue (che interpreta Jean che interpreta Vera Grace) who were we when we were who we were?
Jean e oscar sono sulla terrazza del Samaritaine, esattamente di fronte al Pont Neuf, dove si consumava l’amore tangibile e materico e creaturale degli amanti, rovesciato nella storia inesistente tra due maschere irriconoscibili perfino a se stesse.
Vero e finzione si fondono, inevitabilmente. Oscar non avrà mai riposo, mentre la sua autista dopo averlo accompagnato all’ultimo impegno e parcheggiato la limousine, si scioglierà i capelli e indosserà una maschera per tornare in sé.

Guardate Holy motors, rimarrete abbacinati, dalla bellezza, smarriti. Capirete d’istinto d’avere a che fare con tutto quello che succede. D’avere bisogno del cinema, di perdervi, di credere.

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