mercoledì 19 giugno 2013

BLACK MIRROR




Shot by a security camera
You can’t watch your own image
And also look yourself in the eye
Black Mirror, Black Mirror, Black Mirror 3


Non è troppo complesso né tantomeno inutile immaginare l’esasperazione di alcuni costumi inveterati delle società 2.0. E il parossismo dei risultati può aiutare a fare luce sullo stato attuale delle cose.
Che impatto ha sulla memoria la pratica di convertire costantemente la realtà in immagini e condividerla grazie a smartphone e surrogati?
Come può “evolvere” lo spettacolare linciaggio mediatico messo in atto da tutte le trasmissioni televisive che speculano sulle miserie altrui per soddisfare la morbosità in cui, noi che guardiamo, continuiamo a riversare l’orrore per noi stessi? 2
Che rapporto c’è tra la nostra identità reale e la versione virtuale affidata alla rete tramite socialnetwork e altre attività di comunicazione – mail, chat, blog ecc.? E quali saranno i nuovi modi di commercializzarla?
O ultimo (e primo) può la società dello spettacolo ipertecnologizzata utilizzare i propri schermi per guardarsi allo specchio e sbugiardarsi?


Black mirror, miniserie inglese comparsa sugli schermi televisivi quasi due anni fa, proietta sul monitor della nostra immaginazione possibili scenari partoriti dalla società in cui viviamo, focalizzando la genesi nel rapporto individuo-tecnologia-media. Creata da Charlie Brooker (critico del Guardian, peregrino autore del mondo dei media, dalla carta stampata alla televisione, dalla radio al web), in due stagioni e sei episodi irrelati mette in scena temi come l’ascesa del virtuale, la digitalizzazione della memoria, il governo dello spettacolo. 

Niente di stupefacente né visionario.
La letteratura cyberpunk e la cinematografia fantascientifica (annessa e non) levano lo stupore di mezzo dalla maggior parte dei tentativi di prefigurare la robotizzazione di alcune funzioni umane e la transizione dal reale al virtuale.
A questa serie però rimane il merito di innescare cortocircuiti critici brillanti calibrando in modo accattivante l’evoluzione tecnologica e la nostra capacità di adattamento (o rassegnazione). Gli episodi più convincenti riflettono sull’impatto sociologico e le reazioni private al potenziamento di alcune abitudini o manie, senza capitolare in un eccesso di visioni futuriste.

Inoculiamoci negli episodi.

I
The national anthem


Lo spettacolo ha vinto perché è in grado di assorbire qualsiasi forma di opposizione facendola propria. Non possono esserci spettacoli «contro».3

Il primo ministro inglese svegliato in piena notte, assiste all’appello straziato della principessa che sotto la minaccia del rapitore singhiozza il prezzo della propria vita.
Stop:
il suo staff lo avverte, il video è autentico, come la richiesta che segue. Nella penombra albina dello studio la solennità dei consulenti spazientisce il primo ministro, che avvolto nel broccato della vestaglia chiede di far ripartire il video, di conoscere immediatamente la natura del riscatto.
«What susannah says next, it concerns you directly sir»
Play:
di lì a un paio d’ore dovrà avere un rapporto sessuale, completo e non simulato, con un maiale, in diretta tv, su tutte le emittenti britanniche.
Sprezzante riprende il controllo, impartendo il silenzio stampa in attesa di una soluzione, niente deve trapelare. Non fosse che il video è su you tube.

Prende il via la corsa per localizzare l’hub da cui è stato diffuso il filmato. Fuori da Downing Street il fiato sospeso dell’opinione pubblica scandisce il count down tra indignazione, smarrimento, rivalsa, curiosità, gratitudine alla tregua generosa dall’ordinario. Brevi pause nella narrazione mettono a fuoco l’orrore a cui il politico si avvicina minuto dopo minuto.
Fallito il tentativo di delegare l’umiliazione a una star del porno e a vuoto la caccia all’uomo, si procede ad allestire il set e narcotizzare la scrofa. L’Inghilterra è incollata agli schermi – nei pub, sui luoghi di lavoro, a casa, negli ospedali.      

Mentre guardo la scena dell’auto diretta agli studi di registrazione, si precisa la risposta emotiva incubata nella parte centrale dell’episodio.
Quest’uomo tra i più potenti (nominalmente) della terra, è accompagnato dalla sua scorta alla gogna. È stato privato della sua corazza inespugnabile di privilegi, umanizzato e poi umiliato.
Si fa fatica a sfuggire al senso di nemesi verso il principe, attaccato tra le mura incrollabili della sua immunità. È un triviale sentimento di rivalsa innescato prima che l’auto parcheggi davanti agli studios, la sua figura assente deambuli lungo il corridoio, indugi sulla porta, dichiari amore alla moglie e implori perdono a dio, guardando la scrofa grufare serafica dentro alla sua scodella; un attimo prima che, discinta la cintura, s’appresti a fotterla piegato sulle ginocchia.
E quel piacere perverso si specchia nelle espressioni del pubblico che freme davanti al televisore.

Quindi la seconda agnizione: quel maiale siamo noi. Ogni singolo spettatore, compresi quelli che si girano sdegnati. Partecipando a questa vendetta inane e frustrata ci siamo prostrati, ignari di prendere parte a un rito tribale che consolida i ruoli e preserva l’ordine sociale. La rabbia contro lo stato delle cose e il bisogno di rivoluzione si spengono sotto le braci di un fuoco di paglia, la dignità del re è un pegno sufficiente, per il momento.  

In un eccesso di spiegazione, a fine episodio, una telecronaca della BBC tira le fila dell’accaduto. Un anno dopo essere andata in onda, l’opera d’arte più discussa della storia sta esaurendo l’effetto shock: la vita pubblica del primo ministro ha ripreso il suo corso, la principessa è convolata a nozze, l’artista si è suicidato durante il rito mancato.      

Una performance artistica dunque, è stato anche questo – o solo questo. Senza precedenti, radicale, eppure a sua volta digerita. La rivelazione finale allarga l’inquadratura e mette il racconto al centro di un'altra prospettiva critica: può la società mediaticamente più esposta della storia, in cui sono state erose le barriere tra pubblico e privato e slabbrati i limiti dell’osceno, ammettere al suo interno una rottura che non sia, paradossalmente, assenza, silenzio, invisibilità, sparizione?
Il tentativo mostrato neutralizza la direzione opposta: radicalizzare il linguaggio non è un modo per scardinarlo.

O anche: la spettacolarizzazione pervade ogni aspetto della società (Debord) e l’arte che utilizza gli stessi codici non può che esserne inglobata. Per quanto forte emotivamente, in questo campo tutto è mediato dalla rappresentazione, dall’immagine della realtà, dallo spettacolo; e per sua natura, l’evento spettacolare viene metabolizzato dal pubblico senza memoria,  appuntato alla rubrica culturale di un telegiornale.


E volendo aprire l’ultima (trasparente) matrioska, anche noi siamo spettatori di una riflessione critica sui media diffusa attraverso i media, scritta da un autore televisivo che è anche critico e produttore. Black Mirror infatti è stata creata da Zeppotron, la società di produzione tv di cui fa parte Charlie Brooker, per Endemol, la società internazionale di produzione e distribuzione di format tv di cui fa parte Zeppotron.  



1 Arcade Fire, Black mirror

2 È grottesco anche solo elencarle, da tutti i telegiornali delle emittenti in chiaro alle criminose rubriche di approfondimento di cronaca nera. Faccio ’esempio più recente possibile, La7 nel TG delle 20.00 di ieri sera ha chiuso con il video del colloquio tra Provenzano, la moglie e il figlio. Dal carcere di Parma l’ombra malata e sospetta vittima di maltrattamenti del capoclan viene buttata in coda al giornale, a metà tra lo scoop e l’irresistibile promozione della prossima puntata di servizio pubblico. Senza motivo, analisi, giustificazione se non quella di appiccare un incendio di indignazione, spaesamento e scalpore, cioè sensazionalismo e auditel; irresponsabile pagliacciata che dovrebbe sortire l’effetto di degrado deontologico di un canale intero.

3 Carlo Freccero e Daniela Strumia, introduzione a La società dello spettacolo, Guy Debord.

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