Shot by a security camera
You can’t watch your own image
And also look yourself in the eye
Black Mirror, Black Mirror, Black Mirror 3
Non
è troppo complesso né tantomeno inutile immaginare l’esasperazione di alcuni
costumi inveterati delle società 2.0. E il parossismo dei risultati può aiutare
a fare luce sullo stato attuale delle cose.
Che
impatto ha sulla memoria la pratica di convertire costantemente la realtà in
immagini e condividerla grazie a smartphone e surrogati?
Come
può “evolvere” lo spettacolare linciaggio mediatico messo in atto da tutte le
trasmissioni televisive che speculano sulle miserie altrui per soddisfare la
morbosità in cui, noi che guardiamo, continuiamo a riversare l’orrore per noi
stessi? 2
Che
rapporto c’è tra la nostra identità reale e la versione virtuale affidata alla
rete tramite socialnetwork e altre attività di comunicazione – mail, chat, blog
ecc.? E quali saranno i nuovi modi di commercializzarla?
O
ultimo (e primo) può la società dello spettacolo ipertecnologizzata utilizzare
i propri schermi per guardarsi allo specchio e sbugiardarsi?
Black
mirror, miniserie inglese comparsa sugli schermi televisivi quasi due anni fa,
proietta sul monitor della nostra immaginazione possibili scenari partoriti
dalla società in cui viviamo, focalizzando la genesi nel rapporto
individuo-tecnologia-media. Creata da Charlie Brooker (critico del Guardian,
peregrino autore del mondo dei media, dalla carta stampata alla televisione,
dalla radio al web), in due stagioni e sei episodi irrelati mette in scena temi
come l’ascesa del virtuale, la digitalizzazione della memoria, il governo dello
spettacolo.
Niente
di stupefacente né visionario.
La
letteratura cyberpunk e la cinematografia fantascientifica (annessa e non)
levano lo stupore di mezzo dalla maggior parte dei tentativi di prefigurare la
robotizzazione di alcune funzioni umane e la transizione dal reale al virtuale.
A
questa serie però rimane il merito di innescare cortocircuiti critici brillanti
calibrando in modo accattivante l’evoluzione tecnologica e la nostra capacità
di adattamento (o rassegnazione). Gli episodi più convincenti riflettono
sull’impatto sociologico e le reazioni private al potenziamento di alcune
abitudini o manie, senza capitolare in un eccesso di visioni futuriste.
Inoculiamoci
negli episodi.
I
The national anthem
Lo spettacolo ha vinto perché è in
grado di assorbire qualsiasi forma di opposizione facendola propria. Non
possono esserci spettacoli «contro».3
Il
primo ministro inglese svegliato in piena notte, assiste all’appello straziato
della principessa che sotto la minaccia del rapitore singhiozza il prezzo della
propria vita.
Stop:
il
suo staff lo avverte, il video è autentico, come la richiesta che segue. Nella
penombra albina dello studio la solennità dei consulenti spazientisce il primo
ministro, che avvolto nel broccato della vestaglia chiede di far ripartire il
video, di conoscere immediatamente la natura del riscatto.
«What susannah says next,
it concerns you directly sir»
Play:
di
lì a un paio d’ore dovrà avere un rapporto sessuale, completo e non simulato,
con un maiale, in diretta tv, su tutte le emittenti britanniche.
Sprezzante
riprende il controllo, impartendo il silenzio stampa in attesa di una
soluzione, niente deve trapelare. Non fosse che il video è su you tube.
Prende
il via la corsa per localizzare l’hub da cui è stato diffuso il filmato. Fuori
da Downing Street il fiato sospeso dell’opinione pubblica scandisce il count
down tra indignazione, smarrimento, rivalsa, curiosità, gratitudine alla tregua
generosa dall’ordinario. Brevi pause nella narrazione mettono a fuoco l’orrore
a cui il politico si avvicina minuto dopo minuto.
Fallito
il tentativo di delegare l’umiliazione a una star del porno e a vuoto la caccia
all’uomo, si procede ad allestire il set e narcotizzare la scrofa.
L’Inghilterra è incollata agli schermi – nei pub, sui luoghi di lavoro, a casa,
negli ospedali.
Mentre
guardo la scena dell’auto diretta agli studi di registrazione, si precisa la
risposta emotiva incubata nella parte centrale dell’episodio.
Quest’uomo
tra i più potenti (nominalmente) della terra, è accompagnato dalla sua scorta
alla gogna. È stato privato della sua corazza inespugnabile di privilegi,
umanizzato e poi umiliato.
Si
fa fatica a sfuggire al senso di nemesi verso il principe, attaccato tra le
mura incrollabili della sua immunità. È un triviale sentimento di rivalsa
innescato prima che l’auto parcheggi davanti agli studios, la sua figura
assente deambuli lungo il corridoio, indugi sulla porta, dichiari amore alla
moglie e implori perdono a dio, guardando la scrofa grufare serafica dentro
alla sua scodella; un attimo prima che, discinta la cintura, s’appresti a
fotterla piegato sulle ginocchia.
E
quel piacere perverso si specchia nelle espressioni del pubblico che freme
davanti al televisore.
Quindi
la seconda agnizione: quel maiale siamo noi. Ogni singolo spettatore, compresi
quelli che si girano sdegnati. Partecipando a questa vendetta inane e frustrata
ci siamo prostrati, ignari di prendere parte a un rito tribale che consolida i
ruoli e preserva l’ordine sociale. La rabbia contro lo stato delle cose e il
bisogno di rivoluzione si spengono sotto le braci di un fuoco di paglia, la
dignità del re è un pegno sufficiente, per il momento.
In
un eccesso di spiegazione, a fine episodio, una telecronaca della BBC tira le
fila dell’accaduto. Un anno dopo essere andata in onda, l’opera d’arte più
discussa della storia sta esaurendo l’effetto shock: la vita pubblica del primo
ministro ha ripreso il suo corso, la principessa è convolata a nozze, l’artista
si è suicidato durante il rito mancato.
Una
performance artistica dunque, è stato anche questo – o solo questo. Senza
precedenti, radicale, eppure a sua volta digerita. La rivelazione finale
allarga l’inquadratura e mette il racconto al centro di un'altra prospettiva
critica: può la società mediaticamente più esposta della storia, in cui sono
state erose le barriere tra pubblico e privato e slabbrati i limiti dell’osceno,
ammettere al suo interno una rottura che non sia, paradossalmente, assenza,
silenzio, invisibilità, sparizione?
Il
tentativo mostrato neutralizza la direzione opposta: radicalizzare il
linguaggio non è un modo per scardinarlo.
O
anche: la spettacolarizzazione pervade ogni aspetto della società (Debord) e
l’arte che utilizza gli stessi codici non può che esserne inglobata. Per quanto
forte emotivamente, in questo campo tutto è mediato dalla rappresentazione,
dall’immagine della realtà, dallo spettacolo; e per sua natura, l’evento
spettacolare viene metabolizzato dal pubblico senza memoria, appuntato alla rubrica culturale di un
telegiornale.
E
volendo aprire l’ultima (trasparente) matrioska, anche noi siamo spettatori di
una riflessione critica sui media diffusa attraverso i media, scritta da un
autore televisivo che è anche critico e produttore. Black Mirror infatti è
stata creata da Zeppotron, la società di produzione tv di cui fa parte Charlie
Brooker, per Endemol, la società internazionale di produzione e distribuzione
di format tv di cui fa parte Zeppotron.
1 Arcade
Fire, Black mirror
2 È grottesco anche solo elencarle, da tutti i
telegiornali delle emittenti in chiaro alle criminose rubriche di
approfondimento di cronaca nera. Faccio ’esempio più recente possibile, La7
nel TG delle 20.00 di ieri
sera ha chiuso con il video del colloquio tra Provenzano, la moglie e il
figlio. Dal carcere di Parma l’ombra malata e sospetta vittima di
maltrattamenti del capoclan viene buttata in coda al giornale, a metà tra lo
scoop e l’irresistibile promozione della prossima puntata di servizio pubblico.
Senza motivo, analisi, giustificazione se non quella di appiccare un incendio
di indignazione, spaesamento e scalpore, cioè sensazionalismo e auditel;
irresponsabile pagliacciata che dovrebbe sortire l’effetto di degrado deontologico
di un canale intero.
3 Carlo
Freccero e Daniela Strumia, introduzione a La
società dello spettacolo, Guy Debord.
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